La recensione del film “C’è ancora domani” di Monica Micheli ci invita a riflettere sulla violenza assistita e sulla catena intergenerazionale dell’abuso.

Articolo tratto dal CISMAI

 

 

“C’è ancora domani”, il bellissimo film di Paola Cortellesi è il passato, presente e purtroppo rischia di essere anche il futuro, di tante donne, madri e figlie.

È un film per certi versi straniante, che evoca il neorealismo ma non è affatto neorealista, perché mantiene in tutta la sua narrazione un tono moderno, anche stilizzato. È un racconto, in cui il tema della violenza domestica è centrale ma epurato dalle sue parti “pulp” e scarnificato fino alla sua essenza, rappresentato come una danza, un ciclo che si ripete e torna sempre sugli stessi passi che alludono e negano allo stesso tempo.

Delia, la protagonista, porta dentro e fuori di sé i segni dei lividi, ma si racconta che lei e il marito stanno solo ballando, e che magari lui è solo un ballerino troppo focoso, che la stringe troppo, che forse qualche volta la fa andare a sbattere contro il muro, quei lividi fanno meno male…

Però ci sono degli occhi davanti ai quali non ci si può nascondere, gli occhi della figlia, che vedono e giudicano, ma diventano poi incapaci di rivolgere lo stesso sguardo su di sé e sulla propria relazione amorosa, dove già è ben riconoscibile la prepotenza nascente. Così, come un sottile veleno, la violenza passa di generazione in generazione, sorda, muta, spesso invisibile agli occhi perché negata dal cuore.

Basterebbe anche questo per fare del film un’opera meritoria, che andrebbe vista soprattutto dalle nuove generazioni, perché imparino che la violenza va riconosciuta ai suoi esordi, quando è travestita da amore, quando è addolcita, come la casa di Hansel e Gretel, dagli zuccherini del “Ti voglio tutta per me”, quando il gesto del maschio di toglierti il rossetto non si è ancora tramutato in schiaffo.

Chi è vissuto nel ‘900 ritroverà il sapore di certi sguardi abbassati dalle proprie madri o nonne, di certi toni sprezzanti, di maschi che vengono serviti per primi e coi bocconi migliori, di tavolate dove uomini e donne siedono divisi (le donne dalla parte più vicina alla cucina…), ma la bellezza del film sta proprio nel suo non storicizzare completamente, nel far intravedere in quel passaggio di consegne tra madre e figlia una continuità che si estende nel futuro e arriva fino a noi, con forme diverse ma spesso una simile sostanza.

La narrazione individuale è arricchita delle voci di un coro fatto da altre donne, le vicine, l’amica del cuore, la portinaia, tanti piccoli punti di vista simili e diversi, attraverso cui la propria realtà, il proprio essere vittima, ma anche il pensarsi solo come la felice destinataria di una proposta di matrimonio, può apparire non così ineludibile, non l’unica dimensione possibile.

Il dramma privato si apre meravigliosamente poi nel finale ad una presa di coscienza politica, perché “partecipazione è certo libertà, ma è pure resistenza”. Le battaglie che non si possono combattere da sole si fanno collettive, insieme si fa tanto rumore, tante donne diventano voci che non si possono zittire, accompagnate, in un crescendo sempre più intenso e commovente, dal meraviglioso brano di Daniele Silvestri “A bocca chiusa”.

“Il problema di Delia è che risponde” dice il patriarca nel film.

Di tutte le cose che le donne possono fare nel mondo, parlare è ancora considerata la più sovversiva” – Michela Murgia “Stai zitta”

Monica Micheli

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