Novembre 2017
Potrei ricordare decine di aneddoti che legano me, il Centro Studi di Terapia Familiare e Relazionale e la sua rete di Scuole, Iefcos a Salvador Minuchin.
Lui, la sua foto con la dedica, sta sempre accanto a me, nell’”altarino personale” che ho nella mia stanza a Iefcos.
Mi ha influenzato tantissimo; e con me ha influenzato migliaia di persone legate in qualche modo alla terapia con le famiglie.
Ho avuto la fortuna di avere con lui un rapporto di quasi amicizia affettuoso e ricambiato. Ma non con tutti è stato lo stesso: Sal era un tipo capace anche di incontri e di interazioni tesi e aggressivi.
E, per tornare agli aneddoti, ne scelgo uno. Erano le prime fasi della crescita del nostro gruppo iniziale; accanto alle prime terapie ed ai primi corsi svolti in via di Conca D’Oro ed in via della Bufalotta, gravitavamo con entusiasmo da pionieri nella mitica Unità Esterna di Psicoterapia dell’Istituto di Psichiatria; via di Villa Massimo, insomma. Correva la metà degli anni ’70 e Luigi Cancrini ebbe la capacità di individuare Minuchin come una persona che poteva dare un apporto importante[1]. Organizzammo il gruppo dei partecipanti, includendo diversi operatori dei Servizi Pubblici, anche quelli che lavoravano a Reggio Emilia con Giovanni Jervis con i quali avevamo un confronto continuo e fecondo[2]. Erano i tempi del suo lavoro con le ragazze anoressiche e noi avevamo letteralmente mandato a memoria una sbilenca traduzione dell’articolo di Harry Aponte sulla “famiglia dalle porte aperte”.
Così, includemmo nei tre giorni di lavoro qualcosa come sette/otto sedute di consulenza con altrettante famiglie di anoressiche.
Era l’epoca della sua proposta della “lunch session”[3] e in una seduta particolarmente carica di tensione, Salvador mi chiamò e mi chiese, con il suo “italiolo[4]”: “Mauricio, che se può avere per mangiare?”. La paziente reagì rabbiosa, urlando che, magari, si poteva ordinare una carbonara. Minuchin mi chiese di portare “qualche cosa” ed io, preoccupato ed ansioso, mi precipitai al Bar Giolitti, in Piazza Armellini. Mi feci incartare una ventina di tramezzini! Li portai a via di Villa Massimo e mi catapultai nella stanza di terapia. Ma, ormai, Minuchin aveva capito che la “lunch session” non era possibile ed era passato a parlare d’altro. Lasciai i tramezzini sul tavolino e ritornai dietro lo specchio, uno spazio angusto dove erano stipati quindici emozionati colleghi. La seduta continuò con grandissime tensioni e, finalmente, terminò e la famiglia fu congedata. Mentre tutti defluivano verso il salone, da dove un’altra trentina di colleghi avevano seguito la seduta attraverso la televisione, io restai alle prese con una grande tensione. E, come è logico, ciò mi provocò un attacco bulimico. Entrai nella sala vuota e addentai un paio di tramezzini. Senza rendermi conti che il grosso apparato di registrazione continuava il suo lavoro. Quando il nastro (si trattava proprio di un enorme nastro magnetico) venne rivisto, volevo morire. Minuchin mi consolò e mi disse che capiva come la tensione, a volte gioca, brutti scherzi.
Salvador Minuchin è stato un uomo con una immensa capacità di provocare reazioni: positive e negative. Nella maggioranza delle persone che lo hanno letto e ascoltato, ha provocato entusiasmo ed emozione.
Tre aspetti sono leggibili nel suo “testamento: l’apporto teorico, l’apporto clinico e quello politico.
Per quanto riguarda il primo punto, non c’è terapista familiare che non abbia letto i suoi libri: “Famiglie e terapia della famiglia” (1978); “Famiglie psicosomatiche. L’anoressia mentale nel contesto familiare” (1980); “Guida alle tecniche della terapia della famiglia” (1982); “Malattia mentale e istituzione. Famiglie, terapia e società” (1991); “L’arte della terapia della famiglia” (2014). Il suo ultra pionieristico lavoro è stato dedicato alle malattie psicosomatiche (nelle quali includeva anche l’anoressia mentale), alle famiglie multiproblematiche, ad una proposta di breve percorso diagnostico del funzionamento delle famiglie (Lavorare con le famiglie. Una guida alla psicoterapia delle famiglie, 1999). Pur se ne aveva preso le distanze, resta colui che ci ha fatto comprendere come i sistemi familiari hanno una struttura (orizzontale e verticale) e che, nei casi problematici, questa struttura mostra chiaramente la sua disfunzionalità.
Il punto della teoria della clinica: abbondantemente rappresentata in tanti dei suoi libri, ha assunto una grandissima capacità di influenzamento di tutti coloro che lavorano con le famiglie attraverso le centinaia di sedute che Minuchin ha condotto in tanti paesi del mondo. Tutti coloro che sono stati influenzati da lui hanno appreso ad utilizzare lo spazio della stanza come un valore aggiunto dell’intervento. La notevole coerenza tra la l’approccio teorico e gli interventi hanno aiutato tanti a prestare attenzione alle alleanze, alle coalizioni, alle “madri centrali”, ai “figli parental child”. Siamo stati tanto colpiti dal suo modo di interpretare i movimenti: quello delle sue mani che spiegavano che una certa dichiarazione andava in una direzione errata. O quello del suo alzarsi e dare la mano a qualcuno quando questi diceva qualcosa che, secondo lui, era innovativo o corretto nella realtà di quel sistema familiare.
Il suo contributo politico: Minuchin è sempre stato dalla parte dei deboli. Iniziando ad occuparsi delle famiglie più sfortunate, quelle degli adolescenti problematici, proseguendo con l’occuparsi dei bambini in difficoltà (era pediatra e neuropsichiatra infantile, diede un impulso straordinario alla rete delle Child Guidance Clinics, a partire da quella di Philadelphia di cui fu a lungo direttore). Trasportava la sua insopportazione per il potere all’interno dell’intervento clinico, contrastando in modo massiccio le madri centrali. Mostrò un interesse vivissimo per la battaglia anti manicomiale italiana. Una enorme parte del suo lavoro iniziale si svolse nei ghetti negri e portoricani (Families of the Slums – Minuchin, Montalvo, Gurney, Rosman & Schumer, 1967; mai tradotto all’italiano). Infine, era convinto che un operatore dovesse anche immergersi nella realtà della povertà e della deprivazione economica. I suoi primi collaboratori storici venivano da quartieri poveri e lui ripeteva quanto fosse importante questa scelta: loro potevano capire molto di più; ed erano più accettati.
Ora è il tempo di riprendere le sue intuizioni, rileggere i suoi libri, rivedere le sue conferenze attraverso la rete.
Minuchin resterà nella nostra memoria e chi si avvicina alle pratiche della psicoterapia lo scoprirà con lo stesso entusiasmo che ha caratterizzato chi ha avuto la fortuna di conoscerlo ed ascoltarlo dal vivo.
Maurizio Coletti
[1] Oltre Minuchin, a via di Villa Massimo passarono Mara Selvini Palazzoli, Paul Watzlavick, Vladimir Hudolin, Philippe Caillé, Luigi Boscolo e Gianfranco Cecchin. E molti altri ancora
[2] Aneddoto nell’aneddoto: la primissima domanda posta a Salvador fu quella di Marisa, un’infermiera del Centro di Igiene Mentale di Guastalla che non fece nemmeno finire il primo intervento introduttivo e chiese: “qual è la sua posizione politica sulla salute mentale e sulla follia?”. Salvador si è sempre ricordato di questo episodio.
[3] Il terapista condivideva il pranzo con la famiglia, per rendersi conto direttamente dello stile di funzionamento e delle interazioni tra i componenti alle prese col cibo.
[4] Secondo lui, era un mix tra italiano e spagnolo. Sono rimasti famosi interventi come: “el bloqueo de la mamà”, “porqué tu fa questo?”