PAESAGGIO 21 GIUGNO 2013
PARTECIPANO: DOTT. GIOVANNI DI CESARE, PROF. LUIGI CANCRINI
Luca Zendri, psicoanalista, ha fondato il suo lavoro clinico delle psicosi sulla profonda consapevolezza del limite che la teoria psicoanalitica porta con sé nella cura dei pazienti gravi. Nel corso della sua esperienza con queste persone e nella difficile conduzione delle terapie ha capito che la psicoanalisi possedeva delle importanti risorse che, però, dovevano essere messe in “movimento” se si voleva aiutare questi pazienti. Ha impostato il suo lavoro in una cornice psicoanalitica, utilizzando uno strumento potente quanto difficile da gestire: il transfert, ancora più pericoloso perché usato in solitudine. Come ci racconta, Zendri è solo di fronte alla psicosi durante le sue terapie. Ha scelto una pratica pericolosa e difficile, è vero. Ma lo straordinario legame che si instaura con il paziente, racconta, è qualcosa di così forte che o ti fa ammalare o ti permette di assumere un punto di vista da cui mai avresti immaginato di poter guardare. Le novità apportate da Zendri alla cornice teorica su cui opera non si fermano qui. Da buon psicoanalista poco ortodosso quale mi sembra, introduce un punto di osservazione antropologico, che noi chiamiamo sistemico, sulla spiegazione dell’origine delle psicosi: attraverso la lente di un microscopio vediamo il nostro paziente che nient’altro è che un “fossile”, che racchiude al suo interno la storia di almeno un secolo, la sua famiglia, e quindi anche le generazioni passate. Per arrivare a vedere ciò è necessario allontanare la lente e allargare cosi il campo visivo, come quando a teatro scompare l’occhio di bue dalla scena.
La psicosi è il risultato di un’evoluzione della specie che permette la sopravvivenza di interi gruppi umani al costo di un singolo, il soggetto puro, come lo chiama Zendri. Da questo punto di vista la psicosi non è una malattia infernale, quale si è sempre pensato fosse, ma la punta dell’iceberg di una “macchina”, la macchina psicotica, appunto, che fornisce un senso e un significato alla “tribù” alla quale il paziente appartiene e che, inconsciamente da questa, viene messo all’origine della propria storia. Tutte le psicosi partono da una posizione comune, ed è questo un fatto ovvio, ma ognuna possiede un ampio margine di originalità che gli è dato dall’appartenenza ad uno specifico clan. Quell’originalità che “strappa” il soggetto puro da ogni riferimento spaziale e temporale, gettandolo nel vuoto, inconsapevolmente. Quando il terapeuta riesce a ricollocare il paziente nella sua vita, rendendolo consapevole della posizione che gli è stata ritagliata su misura dai suoi antenati, proprio in quel momento il caos apparente, ossia le manifestazioni cliniche della psicosi, prendono una forma e un ordine.
Secondo Zendri lo psicotico può essere aiutato dal terapeuta a “stabilizzarsi” ma non riuscirà mai a far parte del gruppo delle persone cosiddette “normali”, che possiedono solo un nucleo psicotico all’interno (come ognuno di noi!) . Secondo il suo punto di vista la psicosi è una posizione logica, una differenza sul piano ontologico fra le varie persone. Lo spazio di lavoro dell’analista consiste nel lavoro di sostituzione. Una volta che, duramente, si è conquistato la preferenza del paziente, il terapeuta si sostituisce a lui nella “macchina”, prende il suo posto, di modo che lo psicotico possa fare un passo indietro nella generazione precedente e possa trattare, o meglio, maltrattare l’analista, come hanno maltrattato lui nel corso della sua vita passata (processo di copia della Benjamin). L’analista in qualche modo lo “smuove” dall’immobilità e dalla fissità in cui sempre è stato tenuto, facendogli sperimentare un punto d’azione e donandogli l”’ombra” che, in alcune situazioni, ci dà la prova della “presenza” di una persona (Peter Pan la possedeva, l’aveva perduta, ma la sua innamorata gliel’ha ricucita addosso!) e che lui simbolicamente non ha mai posseduto, in quanto mai sperimentatosi come soggetto.
Come prima accennato, lo psicotico nient’altro è che il punto di arrivo di almeno tre generazioni, su cui possiamo soffermarci un po’ di più per conoscere le origini e l’evoluzione della “macchina psicotica”:
1° generazione: caratterizzata da personaggi forti e “feroci” , con spiccata capacità di sopravvivenza personale e di conseguenza privi di pietas (egoismo, propensione al comando). Questa generazione, generalmente, ha vissuto catastrofi storiche (guerre, calamità…) ed è stata sradicata dalle proprie origini, qualunque sia lo status sociale di appartenenza. Caratteristica importante da aggiungere: questi soggetti sono personaggi traumatizzati che negano di esserlo, anzi, fanno del loro trauma “soffocato” un motivo di fierezza. Con ciò si vuole precisare che, secondo il principio della multifinalità, non tutti i soggetti che hanno vissuto vicende simili nella loro vita hanno “covato” uno psicotico nelle future generazioni!
2° generazione: Tale generazione non ha vissuto la realtà della morte come la prima, ma trasforma il”mito” della sopravvivenza in un racconto allegorico, in cui il desiderio di essere e di esistere è amplificato al massimo, intriso però da un’aurea di cupa paura per una “morte” incombente ma immaginaria, non reale. Questa generazione prende come testimone dalla prima un vuoto risucchiante che genera un disorientamento caotico, in cui si ha la sensazione di camminare sempre sul ciglio di un precipizio. Se la prima generazione ha vissuto realmente la morte e l’ha negata, alla seconda spetta il compito di occuparsi di questa parte di sofferenza, vivendo costantemente nella squalifica operata dalla precedente. L’immagine che gli viene rimandata è quella di una nullità in confronto al coraggio e alla forza che la generazione precedente ha dovuto dimostrare. Nel padre e nella madre dello psicotico, non vi è tempo perché si produca e si manifesti una psicosi; rappresentano uno stadio preparatorio ad essa, dove, però, ci sono già tutte le attitudini ad essa.
3° generazione: E’ qui che il vuoto risucchiante che le due generazioni precedenti si trascinano trova il punto di arrivo: il soggetto puro viene collocato alla fine di questa lunga trafila come garanzia della tenuta dell’intero clan, inchiodato a forza in quella posizione, addestrato a quel fine. Naturalmente qui stiamo parlando degli ingranaggi di una macchina che lavora del tutto inconsapevolmente. Quel desiderio di essere e di esistere appartenente alla seconda generazione viene trasmesso al figlio ma nel momento in cui diviene cosi voracemente bramato da lui, con una manovra acrobatica gli viene negato e sottratto. Semplificando e banalizzando è come quando un genitore mostra la cioccolata al figlio e gliela avvicina, ne fa crescere il desiderio, e poi quando lui sta per prenderla, la toglie e la nasconde. Ad una prima reazione di protesta, se il comportamento è ripetuto e rigido, segue una condizione di attesa, di immobilità, di confusione.
Il soggetto psicotico non ha avuto la possibilità di essere aiutato a distinguere ciò che fa parte del Sé da ciò che non fa parte del Sé e che appartiene alla realtà esterna. E’ tutto un miscuglio, un caos, in cui lui non può far altro che mantenere immobile la posizione in cui lo hanno collocato. La sua soggettività è abrasa, è depurato da ogni immagine e pensiero di se stesso che gli possa fornire una qualche indicazione per rappresentarsi nel mondo: per questo Zendri lo chiama soggetto “puro”. Qualcosa nel rispecchiamento materno non si è compiuto: l’immagine di sé che vede riflessa negli occhi di sua madre non è integrata. L’azione viene completata nel tempo, nel corso dello sviluppo della personalità: mano a mano non riesce a vedere se stesso e gli altri come fatti di parti buone e allo stesso tempo di parti cattive.
Ma perché in una famiglia con più figli, solo uno di questi sviluppa una psicosi? E’ come se i genitori avessero un sesto senso che li indirizza verso il figlio più sensibile, quello dove con maggiore facilità è possibile raggiungere il risultato. E’ pur vero che da alcuni studi è emerso che la nascita del paziente designato avviene spesso in un periodo segnato da un grande stress emotivo e fisico della madre e della sua famiglia d’origine, in cui lei stessa trova molta difficoltà nel guidare il bambino nella differenziazione fra il Sé e la realtà al di fuori. Ritornando però sul discorso visto attraverso l’occhio di bue teatrale che viene allontanato affinchè si allarghi la scena, una volta che il meccanismo psicotico viene messo in moto nelle generazioni, è difficile che si arresti: tanto che non ha nessun tipo di influenza la cultura né il livello socio economico al quale il clan appartiene.
Altro motivo di riflessione è rappresentato dal transfert nella terapia con uno psicotico e dall’insieme dei bisogni dai quali l’analista viene investito dal paziente che, secondo Zendri, si aggrappa al terapeuta in maniera proporzionale a quanto la sua tribù si è aggrappata in precedenza a lui. Secondo l’esperienza e l’ottica psicoanalitica di Zendri l’analista rappresenta qualcosa di astratto a cui il paziente si aggrappa, una mappa, una storia della sua vita che lo psicotico “mangia” senza che gli interessi l’Io del terapeuta. L’analista gli regala un clono che viene costruito su misura per lui, continuamente, in un lavoro perpetuo, come se fossero le stampelle alle quali si regge. Grazie a questo il paziente può imparare a leggere il mondo in maniera differenziale.
Interessante è come invece la lettura di questo meccanismo possa essere fatta anche secondo un’ottica affettiva, di conferma, in cui il paziente non si aggrappa a qualcosa ma a qualcuno, in cui non si parla solo di logica ma di flusso di emozioni, in cui il paziente riesce a “sentire” l’analista anche come portatore di una soggettività che in qualche modo conferisce anche a se stesso.
Certo è che il transfert vissuto in una terapia con un paziente psicotico è talmente intenso (tanto da sfociare spesso nell’innamoramento da parte del paziente) che bisogna tenere sempre ben salda la vera motivazione che spinge l’analista ad affrontare questo percorso che non è quella di salvare il prossimo o aiutarlo ma di distinguere fra tutti gli elementi differenziali come fa uno scienziato, motivato dalla curiosità. L’amore del paziente psicotico fa paura perché è assoluto ma nello stesso tempo è completamente disinteressato alla tua persona. Ti sconvolge, e sa dove colpire le tue motivazioni più profonde che ti hanno portato a scegliere questo mestiere. E’ per questo che è facile farsi avviluppare nel vortice psicotico ed è molto difficile “reggere” il transfert. Si deve essere ben “equipaggiati” e lucidi quanto basta.
Noi sistemici diremo che pur facendo un lavoro individuale, nella terapia con uno psicotico si ha in testa l’intero clan a cui esso appartiene: attraverso il rapporto affettivo con lui si va a curare la sua tribù riempiendo quei buchi affettivi lasciati dalla seconda generazione che a sua volta tentava di riempire quelli della prima. Lavoro di nutrimento simbolico e affettivo, in cui lo psicotico diviene il canale che apre ad un flusso di vita e di consapevolezza.
Dott.ssa Giulia Mignucci