CONCLUSIONI

La visione generale che emerge dalla ricerca

Lavorare con i tossicodipendenti. Complessità, sfide e rimozione sociale

Se ci riferiamo all’ultima fase di sviluppo del sistema delle dipendenze patologiche nel nostro paese è possibile prendere atto piuttosto agevolmente di un progressivo declino dell’attenzione sociale ed istituzionale con cui si guarda al fenomeno, sia sul piano dell’evoluzione dei consumi ma soprattutto per ciò che concerne il sistema dei servizi.

Esaminato dal punto di vista dell’addetto ai lavori, quello della dipendenze patologiche costituisce  ancora oggi un un’arena privilegiata di dibattito spesso anche aspro dal punto di vista culturale e politico. Un interesse infinitamente minore si rileva guardando a questo settore sul piano delle politiche di sviluppo e qualificazione delle offerte, che poi chiamano in causa domande e bisogni concreti degli attori del sistema.

Un indicatore emblematico di questa situazione è rappresentato dal declino dell’interesse nei confronti delle risorse umane del sistema, che pure aveva conosciuto una fase particolarmente prolifica fra la seconda metà degli anni Ottanta ed i primi Novanta, soprattutto grazie ai numerosi contributi empirici prodotti dal Labos e già citati. Uno sguardo anche minuzioso ai contributi settoriali specifici dell’ultimo decennio e più, mette in evidenza un panorama desolante, una sorta di deserto conoscitivo in cui si identificano al massimo contributi di portata limitata, sovente di ordine soprattutto descrittivo e contabile sul piano statistico, ma nessun apporto empirico approfondito e sistematico. Ciò accade mentre i servizi pubblici conoscono ovunque una tendenza al sotto-dimensionamento, le realtà del privato accreditato stentano e sovente si dissolvono, ma i consumi divengono sempre più capillari e complessi.

Su questo terreno, dunque, è del tutto legittimo parlare di “operatore trascurato”, considerando l’assoluta irrilevanza delle policies e delle riflessioni sulle risorse umane del settore. Eppure, anche in questo campo vale la regola elementare secondo cui la qualità nei servizi è soprattutto “selezione, cura e manutenzione” del capitale umano, e solo secondariamente capacità di implementare sofisticazioni tecniche ed ingegneristiche di ordine macro o micro-organizzativo. Tutt’al più, quest’ultima dimensione può consentire – quando non induce effetti paradossali ed indesiderati – un impatto sull’economicità e correttezza formale del sistema: difficilmente può produrre avanzamenti effettivi sulla capacità delle offerte di farsi attrattive, accessibili, eque, appropriate, efficaci. Non solo, ma stiamo facendo riferimento ad un settore in cui, a parte le spese generali e quelle per i presidi farmacologici e per le analisi cliniche, il resto delle risorse si concentra appunto sul fattore umano. Niente costi per macchinari, non per la loro manutenzione, per il loro rinnovo. Solo costi legati ad un intervento che si fonda sulla relazione terapeutica tra operatore e paziente.

Questi elementi richiedono (qui, come ovunque nei servizi di aiuto) un approccio più attento e concreto nella gestione delle risorse umane. Molti autori hanno messo in luce, da questo punto di vista, le contraddizioni ed a volte addirittura gli arretramenti indotti nel sistema dei servizi socio-sanitari da un’interpretazione banalmente e semplicisticamente aziendalista in senso delle politiche di garanzia e sviluppo della qualità. E’ stato bene evidenziato, da questo punto di vista, come l’attenzione alla qualità si sia spesso caratterizzata per “visioni semplicistiche ed idealizzate di metodi e strumenti. Nuovi per questi contesti organizzativi, ma spesso ingenuamente o rozzamente trasferiti da contesti di aziende produttrici di beni e servizi con culture assai differenti da quelle in cui ci si proponeva d’iscriverli. Certificazione della qualità, total quality, strumenti per l’eccellenza valutazione dei carichi di lavoro sono apparse come affascinanti, taumaturgiche soluzioni ad una serie di problemi […]. La scarsa attenzione alla specificità delle organizzazioni impegnate nella produzione di servizi rischia fortemente d’alimentare però […] nuove forme di burocrazia e neotaylorismo, quindi di accentuare l’importanza delle formalizzazioni e delle standardizzazioni dei processi produttivi”[1]. Tutto ciò a discapito di un’attenzione adeguata alla peculiarità dei fattori produttivi, che nel caso specifico sono rappresentati soprattutto dalle risorse umane, dagli operatori in carne ed ossa, dalle loro competenze ed abilità, da capacità adattiva e flessibilità operativa, soddisfazione, gratificazioni.  Il gran parlare di qualità, di accreditamenti, di processi rischia allora di non porre in risalto nella maniera dovuta l’importanza dell’operatore, della sua formazione, della sua mission, dei suoi problemi.

In realtà, il problema della disattenzione verso il fattore umano nei servizi alle persone non è una specificità limitata esclusivamente al settore delle dipendenze patologiche. Questa linea di tendenza nella governance e nella gestione di questo comparto – sempre più rilevante con l’affermazione tendenzialmente universalistica dei diritti di cittadinanza e con l’aumento continuo della complessità sociale – può essere esteso ad altri ambiti del sistema socio-sanitario, educativo, del lavoro. Presumibilmente, esso è figlio di un’epoca caratterizzata soprattutto da un’esigenza di controllo della spesa e di razionalizzazione e contabilizzazione delle risorse economiche. Un’impostazione siffatta, mentre enfatizza le esigenze di promotori e gestori dei servizi indebolisce e pone in secondo piano il punto di vista e gli interesse degli operatori dei servizi, con rischi indiretti anche per i destinatari delle prestazioni[2]. In altri termini, poiché in questa fase storica prevalgono interessi e punti di vista riconducibili primariamente all’economicità ed alla conformità formale, ne deriva una tendenza piuttosto diffusa a porre in secondo piano il tema cruciale del fattore umano. Tutto ciò, si badi bene, a fronte della già citata evoluzione dei consumi patologici: lungi dall’essere più residuali, questi evolvono drammaticamente e, con essi, evolovono e si amplificano le esigenze di interventi, trattamenti, cure.

Tutto ciò, però, può rivelarsi un boomerang anche sul piano dell’efficienza, certamente sull’impatto e sugli esiti. La sensazione di chi opera a contatto con i contesti quotidiani in cui si assumono le micro-decisioni – spesso incalzati dalla molteplicità e dall’urgenza del “qui-e-ora” – è che sovente si viva in un contesto di rimozione del meccanismo concreto con cui si produce la qualità delle offerte, e che questo venga sepolto da logiche estranee al servizio, ridondanti ed enfatiche. Tale meccanismo risiede grandemente nella capacità di investimento empatico, tecnico, razionale dell’operatore di gestire intenzionalmente l’interazione con l’utenza, in una situazione di equilibrio sempre precario sul piano del coinvolgimento emotivo e dell’aderenza ad un progetto condiviso dagli stakeholders. Dunque, è bene interrogarsi costantemente sui fattori che guidano l’operatore nella presa di decisione e nell’azione. Questi vanno identificati, com’è noto, nei valori soggettivi e nei livelli di conoscenza (o, meglio, percezione) dei fattori che determinano il problema/bisogno e delle risorse in campo. In questo senso, estremizzando, possiamo identificare due scenari contrapposti:

  1. il problema su cui si interviene è conosciuto da tutti allo stesso modo, e tutti i soggetti – avendo una struttura di valori analoga – condividono appieno i fini;
  2. di converso, è anche possibile – ed anzi sovente così avviene – che del problema non vi sia conoscenza univoca e che ciò si associ ad una scarsa condivisione dei fini.

Quali di questi scenari è più frequente nei servizi? I dati esaminati nel volume evidenziano senza dubbio che il secondo corrisponda ad una visione più attendibile della realtà. In ogni caso, la norma delle odierne società complesse è rappresentata dal secondo modello decisionale, che – com’è noto – presuppone una modalità di concepire la qualità del servizio più legata agli attori in carne ed ossa, che stanno nel processo, piuttosto che ad una visione centrata su una razionalità assoluta che relega l’attore al ruolo di pedina di un gioco sovra-determinato. Ma, com’è noto, questo meccanismo fa sempre meno parte del mondo umano[3]. Però, ci sembra – e ciò ci stupisce costantemente – alcune attuali concezioni del governo dei servizi si legittimano – ovviamente in forma implicita, ma del tutto evidente, talvolta perfino “assordante” – soltanto in base a questa grossolana dimenticanza.

Insomma, non diciamo nulla di nuovo ribadendo che anche in questo settore la qualità delle offerte si fonda grandemente sulla qualità delle risorse umane, e sull’opportunità di operare nell’ambito di quella “razionalità processuale” – ossia costantemente alimentata da un rapporto virtuoso fra valorizzazione della conoscenza e governo del processo – che restituisce agli operatori il ruolo centrale e strategico che inevitabilmente compete loro. Ed è nell’ambito di questa consapevolezza di fondo che si legittima un monitoraggio attento e sistematico della loro condizione lavorativa. In altri termini, restituire centralità agli attori – fondamento primario della qualità – richiede investimenti idonei, specifici e mirati in termini di programmi di ricerca e di qualificazione delle condizioni di lavoro, di valorizzazione professionale. In altri ambiti, tale consapevolezza si sta facendo – seppur faticosamente – strada fra gli addetti ai lavori, alimentando policy ad hoc. Ci riferiamo, soprattutto, al contesto affine dei servizi dell’education, nel quale – anche sulla base di precise sollecitazioni comunitarie – si sta ormai consolidando un’attenzione sugli operatori dell’istruzione e della formazione orientata all’implementazione di politiche di sostegno e sviluppo della professione[4].

L’indagine presentata in questo volume, in sostanza, oltre che migliorare ed aggiornare le conoscenze disponibili sul settore delle tossicodipendenze, vuole sensibilizzare i policy makers sulla priorità da assegnare alla cura e manutenzione del capitale umano, e sui ritardi accumulati in questa direzione. L’intento del lavoro, dunque, non era di focalizzare l’attenzione su manifestazioni patologiche e degenerative riscontrabili in questa come in altre professioni di aiuto. Si è, così, evitato di focalizzarsi sul tema del burnout poiché gli obiettivi erano di natura più ampia, oltre che per evitare di alimentare visioni limitate e riduttive sebbene magari più attrattive. Lo scopo del lavoro era, cioè, di scattare una fotografia nitida ed articolata della condizione lavorativa degli operatori delle tossicodipendenze, individuandone le principali criticità, ivi comprese eventuali aree di affaticamento lavorativo intese in senso ampio. Attraverso questa operazione – proprio per il ruolo cruciale delle risorse umane – si è cercato di fornire un quadro della fase particolare attraversata dal sistema nel suo complesso. Sebbene si tratti di una survey realizzata su sole quattro regioni, per la profondità dei temi e l’ampiezza dei casi esaminati, il lavoro può essere considerato come un valido riferimento conoscitivo ed una bussola per la riqualificazione del sistema.

Cosa emerge, dunque, dall’indagine?

Anzitutto, ci pare, una mole notevole di informazioni in grado di fornire – seppure indirettamente – indicazioni sulle dinamiche più complessive e sullo stato di salute del sistema dei servizi. In questo senso ad esempio, emerge chiaramente una situazione di stasi nello sviluppo delle offerte, considerando che praticamente nove servizi su dieci fra quelli ricaduti nel campione risultano istituiti da oltre un decennio, di norma fra gli anni Ottanta ed i primi Novanta. Negli ultimi anni, pertanto, pare fortemente indebolita la spinta alla creazione di nuove realtà nel campo dell’assistenza e cura, e ciò si verifica in una fase storica di forte espansione e differenziazione dei consumi. Oltre agli aspetti quantitativi, se si guarda alla composizione dell’utenza in carico la sensazione di relativa stasi si rafforza ulteriormente, giacché questa risulta caratterizzata pressoché esclusivamente da una popolazione sempre più anziana di soggetti dipendenti da eroina o da poli-abusatori tendenzialmente cronici.

La tendenziale stasi (se non, larretramento) del sistema italiano dei servizi trova un ulteriore riscontro nelle principali caratteristiche socio-anagrafiche degli operatori. Fra questi si rileva, in primo luogo, una sensibile tendenza all’invecchiamento, considerando che l’età media risulta aumentata complessivamente di circa cinque anni in poco più di un decennio. Si tratta, dunque, di trend rapidissimo, di cui è arduo prevedere l’esito già nel medio periodo.

Il rischio è di dilapidare repentinamente un know-how faticosamente accumulato sul campo dalla prima generazione di operatori, di cui resta una presenza significativa soprattutto nella componente pubblica del sistema.

Infatti, l’invecchiamento degli operatori risulta notevolmente più accentuato nei SerT a causa di una maggiore incidenza del turn-over nella componente del privato accreditato, che in fondo rivela la grande debolezza di quest’ultimo segmento del sistema. Molte delle differenze riscontrate sul piano del vissuto psicologico ed emotivo fra le due tipologie di servizi vanno ricondotte alla differente composizione anagrafica e dell’intensità del turn-over. Ciò implica, in sostanza, una più prolungata esposizione degli operatori dei SerT alle sollecitazioni di una professione oggettivamente impegnativa, contribuendo in parte a spiegare un più diffuso “affaticamento lavorativo” in questa componente del sistema.

In questo stesso scenario si rileva anche una tendenza accentuata alla femminilizzazione della professione: attualmente le operatrici tendono a divenire maggioritarie anche nella componente privata, dove tradizionalmente risultavano fortemente sottodimensionate. In genere, una femminilizzazione così spinta di un comparto è sintomo di una relativa debolezza e scarsa attrattività: presumibilmente, questa interpretazione riflette questioni oggettive cui si è già accennato. Questo trend, inoltre, espone maggiormente la professione a rischi di degenerazione psico-fisica, sia perché di norma l’utenza di questi servizi è prevalentemente maschile (nonché sempre più complessa e conflittuale), sia perché le donne risultano tendenzialmente più esposte allo stress lavorativo nei servizi di aiuto. Peraltro, mentre aumentano i segnali di indebolimento dello status, si riscontra una tendenza marcata alla professionalizzazione del settore, sia in ragione di un incremento cospicuo dei laureati, sia a causa di una più chiara delimitazione dei ruoli e delle mansioni. Anche nella componente del privato accreditato la tendenza alla professionalizzazione è evidente, poiché anche qui i laureati risultano ormai maggioritari. In questo specifico ambito, però, appare necessario potenziare l’offerta di formazione in servizio, anche in ragione del fatto che il turn-over più frequente pone costantemente esigenze di qualificazione in entrata e di manutenzione del know-how del servizio.

Per ciò che concerne l’analisi della condizione lavorativa, questa è stata esaminata sotto tre le diverse angolazioni dell’auto-valutazione, soddisfazione, stress psico-fisico. Non ci è limitati, cioè, alla ricerca di manifestazioni patologiche – quali una condizione di burn-out – che pure ci è sembrato di intravedere seppure in una componente molto minoritaria del sistema. In un’ottica più generale, l’attenzione è stata focalizzata sugli oggetti e sui contesti caratterizzanti la professione:  l’utenza, i colleghi di lavoro, il contesto organizzativo, un vissuto più intimo e personale.

Nella pluralità delle questioni emerse per ciò che concerne l’utenza, ci è sembrato si siano delineati soprattutto due elementi relativamente critici. Essi chiamano in causa, rispettivamente: un senso di inaridimento della relazione d’aiuto, che caratterizza soprattutto il vissuto degli operatori dei SerT, e la percezione di una crescente complessità della domanda, presente soprattutto negli enti accreditati. Nel primo caso, il senso di distacco sembra riconducibile soprattutto ai timori indotti da un’utenza sempre più difficile da trattare, ed in molti casi portatrice di una notevole carica conflittuale. Non bisogna dimenticare, da questo punto di vista, che a fronte di una tendenza alla cronicizzazione della domanda, nei SerT si continua spesso ad operare in una sorta di frontiera, dove peraltro gli addetti sono soprattutto donne coniugate con numerosi anni di esperienza nel settore. La percezione della complessità della domanda negli enti accreditati sembra trovare un fondamento oggettivo in un’incidenza crescente di utenti molto problematici (doppie diagnosi, ecc.), che ha mutato notevolmente i profili “più motivati al cambiamento” con cui tradizionalmente si lavorava in questi servizi. Non si dimentichi neppure, da questo punto di vista, che il forte ricambio di addetti in questo segmento del sistema indebolisce costantemente le routine ed i raccordi del lavoro in equipe.

La valutazione delle relazioni con i propri colleghi ha evidenziato numerosi punti critici, per certi versi più intensi rispetto al precedente ambito relazionale. A questo livello, la situazione si è presentata fortemente polarizzata, fra una prima componente che percepisce lo staff di appartenenza come un contesto prevalentemente rassicurante e gratificante, in altri casi traspariva un clima di pronunciata indifferenza se non proprio di conflittualità. La situazione a questo livello risultava notevolmente più compromessa nella componente pubblica del sistema, forse anche a causa di rapporti di lavoro più prolungati, in cui possono essersi sedimentate aree di non detto e dinamiche conflittuali. Non a caso, più che su questioni di ordine tecnico ed operativo, a questo livello i problemi riguardavano prevalentemente il quadro delle relazioni interpersonali, ossia il sub-strato su cui è possibile innestare rapporti di cooperazione proficui. In certo qual modo, la polarizzazione sembrava corrispondere alla linea di demarcazione istituzionale fra le due componenti del sistema.

Elementi diffusamente problematici sono emersi anche nei confronti dell’organizzazione di appartenenza. In questo caso, il vissuto problematico sembrava caratterizzare soprattutto gli intervistati nei SerT di dimensioni più consistenti. I problemi principali richiamavano, in questo ambito, tre aspetti principali in certa misura riconducibili alla maggiore burocratizzazione del settore pubblico:

  • In primo luogo, si è potuto rilevare come gli operatori percepiscano una scarsa coerenza fra le crescenti esigenze di efficienza e razionalizzazione dei costi ed i bisogni e le domande dell’utenza del servizio.
  • A ciò si associa una domanda di maggiore chiarezza rispetto ai propri compiti e funzioni.
  • Infine, si è messa a fuoco una domanda più generale di partecipazione ed identificazione alle strategie organizzative.

Sul piano del vissuto personale, si sono delineate tre distinti elementi critici:

  • un diffuso bisogno di formazione continua in servizio, soprattutto per ciò che concerne uno spazio di riflessione critica e condivisa su prodotti e risultati del lavoro, principali responsabili della gratificazione e dell’auto-stima;
  • una sorta di equilibrio precario fra risorse soggettive (psico-fisiche e tecniche) implicite nell’impegno professionale e capacità di far fronte alle notevoli implicazioni emotive connesse alla prestazione di servizio;
  • la presenza di approcci e pratiche lavorative routinarie, che tendono sovente ad incentivare quella speranza di turn-over che costituisce una delle principali fonti di depauperamento professionale ed umano del settore.

Per ciò che concerne la soddisfazione lavorativa, i dati hanno segnalato un diffuso senso di gratificazione professionale, che coinvolge circa otto intervistati su dieci in misura analoga a quanto riscontrato in gruppi professionali affini. La comparazione con analoghe rilevazioni del Labos negli anni Novanta, però, segnalano una certa contrazione degli insoddisfatti soprattutto nella componente privata del sistema. Se si associa questo elemento all’elevato turn-over vivi rilevato, si ottiene una sostanziale conferma circa una condizione maggiormente critica nel privato accreditato. Gli elementi che producono maggiore soddisfazione sono rappresentati soprattutto da aspetti intrinseci al lavoro ed al senso di utilità percepito nei confronti dei destinatari finali (la classica dimensione della “riuscita”). Di converso,  la componente degli insoddisfatti risulta maggioritaria risulta consistente soprattutto sui temi della retribuzione e delle politiche aziendali. Per quanto riguarda il secondo aspetto, sul quale già in precedenza erano emerse difficoltà specifiche, si rileva un’insoddisfazione piuttosto diffusa che tende ad accentuarsi nella componente pubblica del sistema, presumibilmente a causa della connotazione più burocratica di queste organizzazioni.  La dimensione retributiva – sulla quale per la verità le posizioni sono solitamente piuttosto controverse fra chi la considera come una dimensione centrale nella soddisfazione ed altri che vi danno minor peso – costituisce un fattore specifico e diffuso di insoddisfazione a prescindere dalla specifica collocazione nel sistema e per molti versi anche dall’entità della stessa retribuzione.

La disamina dei livelli di stress psico-fisico effettuata ricorrendo al test NHP ha evidenziato una certa presenza di condizioni problematiche di stress in circa 1 caso su 10. In questa componente, inoltre, tendevano a concentrarsi una frequente ed accentuata insoddisfazione professionale ed un’auto-valutazione negativa della propria condizione lavorativa.Pertanto, semmai si può parlare di presenza di condizioni di burnout, esse risultano al più limitate a questa componente.

Va osservato come questa condizione non sembra risentire affatto di variabili socio-anagrafiche e professionali, risultando tendenzialmente trasversale anche in riferimento alla tipologia di servizio. Al contrario, anche in riferimento a teorie classiche sulla motivazione al lavoro – le quali, tra l’altro, confermano come questa sia una variabile rilevante della qualità produttiva – hanno messo in evidenza come le condizioni di particolare affaticamento lavorativo derivino soprattutto da due elementi:

  1. anzitutto, dal modo con cui si percepisce la propria professione, ossia “dal lavoro in sé”, che è frutto della sensazione di svolgere una professione socialmente riconosciuta, in grado di valorizzare l’espressività e le potenzialità di ciascuno, ecc.
  2. in secondo luogo, dalla cosiddetta dimensione della “riuscita”, che nel pubblico si declina principalmente in rapporto ai risultati con l’utenza, mentre nel privato chiama in causa le possibilità di sviluppo professionale.

Si noti come ambedue questi elementi, quando percepiti criticamente, producono una forza centrifuga cui va ascritto il turn-over (soprattutto nel privato) o una sorta di ritrarsi in se stesso e nella routine ed inerzia quotidiana (soprattutto nel pubblico).

Gli altri aspetti critici – quali il rapporto con l’organizzazione, per certi versi le relazioni nello staff, la richiesta di formazione, la complessità dell’utenza possono tutti essere fonte di malessere ma non al punto da favorire il burn-out e la propensione alla fuga da questa professione.

I punti più rilevanti identificati dalla ricerca

Come già affermato, la ricerca non ha riscontrato situazioni di sofferenza che possano essere definito come burn out. Vengono indicate alcune situazione al limite delle difficoltà estreme. Diffusi, invece, sono i segnali di stress e disagio che riguardano più del 15% del campione degli intervistati.

Ambedue, secondo i dati che provengono dal lavoro di rilevazione,  non sono omogeneamente distribuiti in tutto il campione intervistato.

Le differenze, come già precisato, riguardano diversi livelli.

Il primo è completamente in linea con gli studi già citati sul burn out condotti dalla Maslach e da altri autori: la condizione di genere sessuale.

Sembra molto evidente che le operatrici sono più esposte dei loro colleghi maschi a rischi di stress e di disagio. La condizione “doppia” di impegno (sul fronte delle attività lavorative e su quello degli impegni domestici) grava sulle operatrici, rendendole più fragili, più esposte in generale.

Il secondo livello di differenza riguarda gli operatori dei Servizi Pubblici a paragone con quelli impegnati nei centri di trattamento di privato sociale. Questi ultimi indicano una condizione di maggiore stress e disagio.

Il terzo livello fa riferimento a chi opera in centri ambulatoriali, paragonati alle condizioni di chi presta servizio in strutture dedicate ai trattamenti residenziali. Anche qui, il secondo gruppo di soggetti segnala una tendenza a stress e disagio maggiore del primo gruppo.

L’analisi di queste diversità può mostrarsi complessa e multivariata, come mostrano le analisi condotte sui dati e mostrate nella parte centrale del libro.

Si tenterà, qui, di schematizzare alcuni aspetti più rilevanti.

Le differenze citate sono riferibili in parte rilevante alle cornici organizzative.

Nonostante le condizioni contrattuali e funzionali stiano cambiando rapidamente, la maggiore stabilità della condizione lavorativa riscontrabile nei Servizi Pubblici e la complessiva maggiore “protezione” che gli operatori di questo settore godono rispetto ai colleghi dell’area del privato sociale, creano le condizioni per un maggiore livello di disagio segnalato da quest’ultimo gruppo.

Lì dove i professionisti del settore pubblico segnalano stress e disagio, sono chiamti in causa, oltre alle differenze già citate di genere sessuale:

  • un rischio legato ad un certo livello di “impersonalità” della struttura, dell’organizzazione generale e della “cascata gerarchica”. Gli operatori del pubblico segnalano una forte marginalizzazione del settore delle dipendenze nel campo della sanità pubblica ed una disattenzione alle esigenze ed ai bisogni definiti nella pratica quotidiana;
  • più specificatamente, viene segnalata una mancanza generale di mission specifica e si ritiene che un’organizzazione assimilata ad attività ambulatoriali agenti in campi differenti crei le condizioni per una risposta insufficiente e, quindi, generatrice di disagio anche negli operatori (oltre che negli utenti)
  • circa l’utenza, il fatto che i servizi pubblici siano disponibili ad ogni situazione durante tutta la fase di apertura, crea il disagio spesso derivato da pazienti violenti o aggressivi, richiestivi, frequentemente non cooperanti, quando mancanti di ogni motivazione al trattamento ed alla relazione terapeutica. Una sorta di “Emergency Room” delle dipendenze patologiche, quindi, nonostante le condizioni organizzative e strutturali siano molto distanti dal modello citato;
  • l’ultimo aspetto riscontrato si riferisce alle relazioni interne all’équipe. Viene segnalata una certa insofferenza, qualche difficoltà a sentirsi membri di un gruppo operativo, una tendenza a non curare eccessivamente le relazioni interpersonali necessarie per un lavoro collettivo.

Gli operatori dei centri di privato sociale, invece, segnalano come positiva (e, quindi, fattore di protezione verso il disagio) l’esistenza diffusa di relazioni più vincolanti, di un senso di mission più definito. Oltre alle condizioni relative ai contratti (già segnalate), questo sottoinsieme mostra di essere sensibile alla gerarchia: considerata come un elemento stabilizzante, una leadership può anche essere percepita come eccessiva, troppo rigida e, quindi, fattore di rischio per stress e disagio.

Per  gli operatori che agiscono in centri di trattamento residenziali del privato sociale, viene segnalato lo stress di un contatto prolungato (nella giornata e nei giorni della settimana) con un’utenza verso la quale è, tavolta, difficile misurare una distanza relazionale sufficiente; si è sempre esposti agli “umori” di un gruppo, alle relative manipolazioni,, agli eventuali momenti di tensione e di rabbia.

Per quanto attiene alle soluzione prospettate dagli intervistati, alle scelte che potrebbero proteggere da stress e disagio, le indicazioni privilegiano i punti seguenti:

  1. la soddisfazione (collegata sia agli esiti, che alle variabili organizzative) è percepita come protezione dallo stress
  2. a proposito del rapporto soddisfazione personale  correlato con  l’esito dell’intervento con gli utenti:
    1. il rischio di un circuito basato sulla polatità onnipotenza – impotenza
    1. dalle interviste si evince che la relazione gratifica, il risultato (l’esito) gratifica meno
  3. si segnala chiaramente la mancanza di una progettualità degli interventi di trattamento ex ante – durante – ex post, che vengono percepiti come troppo spesso basati su schemi scarsamente personalizzati ed, invece, ripetitivi nelle scelte e non monitorati, implementati, modificati e centrati sui bisogni emergenti e progressivi . Vi è un certo disagio vissuto nelle difficoltà di “misurare” gli esiti positivi raggiunti al termine del trattamento. Così come si percepisce difficile e potenzialmente stressante la difficoltà di poter monitorare la permanenza dei risultati ottenuti nel tempo successivo alla chiusura del trattamento, alle dimissioni.
  4. è segnalato fortemente come un fattore di difficoltà anche la carenza di una lettura e di pratiche diffuse che colleghino i bisogni dell’utenza (visti a tutto campo e non solo sanitari) con le potenzialità   e le risposte dispopnibili a livello di staff. Sembra che le risorse esistenti nell’équipe non siano sfruttate a dovere, con diverse professionalità sottostimate e poco utilizzate. 

 In sintesi, i nodi critici potrebbero essere così riassunti:

  1. le risorse a disposizione, considerate scarse ed insufficienti
  2. l’attenzione alla gestione del centro di trattamento, considerato come un livello da cui troppo spesso gli operatori sono esclusi
  3. la mancanza di una strategia di supervisione ed accompagnamentom dello staff
  4. le difficoltà nei rapporti con i colleghi ed il rapporto individuale con l’intero gruppo
  5. le difficoltà specifiche nella relazione con i pazienti e quelle legate al mantenimento di una relazione terapeutica efficace

Mentre,  i fattori protettivi potrebbero essere sitetizzati come segue:

  1. risorse adeguate (vedi, anche blocco successivo)
  2. coinvolgimento nelle strategie di gestione e programmazione del servizio
  3. l’accompagnamento, la supervisione dello staff
  4. la cura dello staff, più in generale

Blocco D

I dati e le interpretazioni fino a qui fornite hanno, ora, necessità di essere tradotte in indicazioni e scale di priorità.

L’esigenza di tradurre in indicazioni operative le conclusioni del lavoro condotto iniziano con le considerazione che la ricerca condotta e riportata in questo volume abbisogna di ulteriori approfondimenti.

Pur potendo contare su un campione robusto e mediamente rappresentativo del target degli operatori impegnati nei trattamenti e nelle azioni  ed interventi verso le dipendenze patologiche e i consumi problematici di sostanze, si deve ricordare che non tutto il territorio nazionale e le Regioni sono state coperte dal campione intervistato. In particolare, mancano gli operatori che agiscono nei centri di trattamento pubblici e di privato sociale delle grandi aree metropolitane. In queste ultime, è plausibile che le condizioni di lavoro siano particolari, differenti e probabilmente più difficili di quelle riscontrate nel nostro campione: numero di utenti in carico molto maggiore, carenza di personale e di risorse più acute, caratteristiche dell’utenza più difficili e problematiche.

In primo luogo, quindi, sembra plausibile che la ricerca nel campo si allarghi sia in dimensioni nquantitative, sia in quelle territoriali.

In secondo luogo, appaiono molto chiare due differenti indicazioni: per ridurre le conseguenze negative e problematiche di stress, disagio e burn out, occorre che si creino dovunque possibile le condizioni per una partecipazione attiva, informata e propositiva degli operatori alla strategia ed ai percorsi organizzativi dei centri di trattamento in cui prestano la loro opera. Inoltre, è indispensabile che siano rafforzate le azioni legate alla supervisione, alla formazione, all’aggiornamento, all’accompagnamento.

Gli intervistati, infatti, considerano questi due punti come altrettante aree di protezione dai rischi di stress e di disagio.

L’insistenza sulla conoscenza delle linee strategiche e sull’importanza di un coinvolgimento pieno e responsabile nelle azioni di programmazione da parte di tutti gli operatori, è un elemento molto interessante ed innovativo. Si tratta, in altre parole, di considerare la gestione del centro di trattamento, delle sue priorità, della costruzione delle ipotesi future, della stessa scelta degli interventi non indolori sui tagli oppure sulle implementazioni necessarie, come un aspetto che rende gli operatori partecipi, informati, che favorisce il dialogo “verticale” ed orizzontale” e che, in definitiva, combatte il disagio dovuto alla mancanza di protagonismo sulle direzioni future e sulle scelte a breve, medio e lungo termine. Più partecipazione, quindi; più informazione e più integrazione.

Come rendere questa indicazione effettiva?

Sappiamo come sia percepibile in maniera abbastanza netta una diffusa criticità nella diffusione dei documenti, dei rapporti, degli studi generali, delle linee guida nelle collettività degli operatori delle dipendenze patologiche.

Una grande maggioranza degli operatori non dedica tempo sufficiente (o, semplicemente, non legge) all’analisi dei dati che riguardano il fenomeno delle dipendenze patologiche. Questa operazione è limitata solo ad alcuni soggetti, interessati per ragioni specifiche. Non si conoscono in forma diffusa i dati rilevabili a livello nazionale, i trend che sono visibili attraverso le survey specifiche, sia a livello nazionale, che a livello europeo. E, a cascata, non sono abbastanza noti i docuemtni, le norme, le indicazioni a livello regionale. Ultima, ma forse più importante, è la condizione di insufficente conoscenza delle dinamiche quantitative e qualitative che sono conosciute a proposito degli utenti del centro di trattamento specifico nel quale un determinato operatore lavora. La insufficiente conoscenza di questi aspetti “trascina” una difficoltà che produce minori competenze nella partecipazione alle scelte strategiche. Un esempio molto noto è quello relativo ai documenti come le Linee Guida (o documenti similari). Negli ultimi dieci anni sono state prodotte un certo numero di Linee Guida su argomenti disparati (trattamenti metadonici, trattamenti farmacologici in genere, azioni di riduzione del danno, ed altri). Ognuno di questi prodotti contiene indicazioni a volte molto dettagliate sulle pratiche di intervento. Questi documenti (talvolta pregevoli, specifici, prodotti attraverso un notevole processo di consenso, con la collaborazione di esperti del settore) sono sommamente sconosciute, poco diffuse, poco studiate e discusse. Il risultato è che restano indicazioni “teoriche”, non assunte con il supporto necessario, ai limiti dell’inutilità.

Sarebbe, invece, opportuno vincolare la mera produzione di documenti contenenti dati, indicazioni, suggerimenti o linee guida, alla copertura delle esigenze di diffusione, di conoscenza, di discussione ed all’esigenza di una valutazione ex post sull’impatto del singolo documento.

Conoscere e socializzare, quindi, come primo passo per partecipare alle scelte strategiche.

Un secondo passo è quello di includere nell’organizzazione dei centri di trattamento, momenti specifici di discussione sulle strategie, sulle priorità, sulle scelte. Si tratta (sulla base delle conoscenze diffuse a cui si è già accennato) di supportare i manager in un intervento di facilitazione alla partecipazione di tutti gli operatori. In parecchi Paesi europei è pratica corrente quella di organizzare una sorta di Conferenza di Servizio annuale in cui vengono discussi i dati precedentemente ed adeguatamente disseminati sulle attività dell’anno precedente e durante la quale si commentano gli esiti degli interventi, le cornici locali, regionali, nazionali ed europee del settore ed, infine, si identificano colletivamente gli obiettivi da raggiungere che verranno successivamente posti all’attenzione dei policy makers e, se ragionevoli, ben calibrati, fattibili ed innovativi, trasformati in atti formali vincolanti.

Questa delle conferenze annuali di servizio potrebbe essere una forma accettabile, una cornice fattibile in cui tutti gli operatori possano aumentare le loro conoscenze e partecipare all’identificazione delle strategie. È chiaro che questa partecipazione e le stesse conoscenze delle “cose come stanno”, presuppone vocazioni del centro di trattamento al coinvolgimento di tutti gli operatori, alla raccolta ed alla elaborazione costante dei dati relativi agli interventi, alla raccolta ed alla diffusione delle documentazioni locali, regionali e nazionali in materia, alla tendenza all’ascolto, al coinvogimento ed alla ricerca del consenso dei manager delle strutture.

Raccogliere dati e documentazione, diffondere conoscere, approfondire, discutere ed orientare: questa sembra la catena virtuosa che potrebbe permettere di limitare un senso di estraneità, di solitudine, di mancanza di conoscenze che crea disagio e stress.

Il secondo dei fattori di protezione dei disagi e dello stress (e, quindi, la sua mancanza come fattore di rischio) riguarda tutto il settore dell’accompagnamento degli operatori come professionisti, come gruppo, come entità operativa alle prese con pazienti spesso difficili e situazioni spesso degradate o direttamente molto gravi e sempre ad alto livello di complessità.

Gli operatori del campione sono, in questo senso, assai chiari: la formazione, l’aggiornamento, la supervisione sono indicati come indispensabili.

Mentre nel primo dei citati fattori di protezione – rischio (quello della partecipazione all’identificazione delle scelte), ci troviamo di fronte ad un sistema scarsamente impegnato (almeno, finora), gli interventi nei campi citati non sono infrequenti e sono a carico di soggetti diversi. Almeno, per quanto riguarda una parte delle indicazioni che provengono dai questionari che sono stati raccolti.

Si conoscono molte iniziative formative e di aggiornamento che ruotano attorno a diversi aspetti dell’intervento sulle dipendenze patologiche.

Sono differenti anche i soggetti impegnati: Istituzioni centrali dello Stato, Regioni, Enti Locali, ASL,  servizi o gruppi di servizi, Enti Accreditati o catene di organizzazioni, Case farmaceutiche, istituti di formazione ed altri.

La creazione dell’ECM[5] ha moltiplicato l’offerta, pur se è sensazione diffusa che, quantomeno in questo campo e in analoghi settori dell’intervento non solo sanitario, si privilegi in maniera eccessiva l’informazione medica e farmacologica e venga sottovalutato l’insieme delle componenti psico sociali dell’intervento. Inoltre, l’obbligo di raggiungere un determinato numero di punti e di crediti formativi resta individuale e può non essere affatto in sintonia con le esigenze del centro di trattamento e dell’équipe.

Ancora, la tendenza a favorire progetti di ricerca, di ricerca – azione, di raccolta di dati nel campo delle droghe è stata accompagnata dalla parallela diffusione di corsi sulle materie specifiche dei progetti, che sono quasi sempre il corollario obbligatorio dei progetti stessi.

Il quadro è piuttosto confuso per quanto riguarda i format  adottati; si va dalla conferenza, al corso monotematico di uno o più giornate continuative di durata, al corso di aggiornamento disseminato in più giornate a cadenza diversa, dalla formula che prevede relazioni brevi (30 minuti, fino ad un’ora) di più docenti, a quella che include la possibilità di un docente unico per tempi superiori, da quelle iniziative che si basano quasi totalmente su lezioni frontali, all’utilizzo di discussioni in piccoli gruppi, esercitazioni ed altro.

Gli intervistati, in genere, mostrano di considerare queste occasioni non solo una possibilità di allontanarsi temporaneamente da una routine pesante, ma anche come momenti in cui si possono mettere a confronto e scambiare esperienze e buone pratiche tra pari. Oltre, chiaramente, alla possibilità di conoscere informazioni, pratiche di eccellenza, teorie od esperienze cliniche preparate appositamente per quella tematica da parte dei docenti. Un momento di pausa, di riflessione, di discussione sulla clinica e sulle esperienze che sembra essere considerata come indispensabile strumento per combattere lo stess ed il disagio.

Semmai, occorrerebbe riflettere[6] sul carattere disordinato e non programmato dell’offerta di formazione e di aggiornamento. Anche in presenza sempre più diffusa di Piani annuali per la formazione a  livello delle singole Asl e dei Servizi, resta eccessiva la frammentazione e difficile una scelta ordinata, scandita dai bisogni formativi identificati in maniera ordinata e continua, da quelli relativi alle tematiche emergenti nel servizio specifico o in una data professione o funzione. Prevale, allora, una sorta di “fai da te”, un mosaico di occasioni che ognuno si costruisce per proprio conto; con un certo detrimento della priorità di un’équipe vista come un insieme di individui che hanno chaira mission, strategia e sistema di tpriorità, sui quali punti indirizzare la partecipazione a corsi ed occasioni di aggiornamento e qualificazione. Sarebbe auspicabile accompagnare l’offerta con piani pluriennali nazionali o regionali che identifichino le priorità indispensabili, sulla scorta delle scelte strategiche.

Altro discorso, invece, per la supervisione dell’équipe. È diffusa tra i policy makers ed i manager dei centri di trattamento che questi interventi si risolvono in una certa “perdita di tempo” prezioso, sottratto alla clinica ed agli interventi in generale. Anche per la supervisione, si identificano differenti modelli, che coniugano in maniera quasi sempre differente le esigenze di discutere casi clinici, casi clinici paradigmatici, dinamiche relazionali nel gruppo. Le supervisioni alle équipes e, soprattutto, il tipo di conduzione  variano a seconda del modello teorico di riferimento del supervisore e non sono quasi mai accompagnate da sforzi per valutarne gli esiti a breve, medio e lungo termine. Molto spesso, sono percepite come un breack, un intervallo che permette di incontrarsi in maniera più o meno ordinata, di discutere con un “terzo”, di identificare interventi plausibili e più efficaci, azioni più integrate tra le professioni, di leggere ed ordinare le relazioni tra i differenti membri dello staff.

Non è necessario fare riferimento alle più moderne teorie dell’organizzazione per capire l’importanza che assume questa azione. Sia che si tratti di identificare possibili soluzioni a casi complessi, che di curare le relazioni “sane” (o contrastare quelle disfunzionali), le stesse esperienze diffuse di consulenza e di supervisione nei gruppi operativi delle imprese grandi e piccole sono, ormai, considerate indispensabili per migliorare le perfomances di uno staff.

Correttamente, quindi, gli intervistati ne vedono i molti vantaggi.

Quali sono le criticità nel diffondere queste pratiche?

La prima e più rilevante è quella, già accennata, della scarsa convizione sulle loro utilità da parte di chi dovrebbe renderle possibili.

La seconda è che occorrerebbe accompagnarle un certo modello di valutazione “leggera” degli esiti, fatto precedere dall’identificazione di indicatori, almeno in parte misurabili e credibili

La terza è che è indispensabile combinare una certa continuità, con il fatto che il supervisore (o, il consulente) dopo un certo periodo perde la sua carica innovativa verso gli operatori e l’intero gruppo e sarebbe indispensabile prevedere una certa flessibilità nell’avvicendamento  nel tempo di esperti diversi.

Resta, comunque, l’indicazione forte sull’utilità della supervisione, della consulenza, dell’accompagnamento come elemento che aiuta il gruppo ed i suoi componenti a ridurre e combattere stress, diasgio e burn out.

Non è pensabile concludere senza affrontare il nodo delle risorse a disposizione.

Le risorse permettono il mantenimento e l’evoluzione del sistema di interventi e questi elementi sono considerati una grande  variabile delle condizioni e delel conseguenze psicologiche e sociali del lavoro nel settore.

Ma, mentre per i due punti precedentemente trattati, le possibilità evolutive ed i miglioramenti delle condizioni di lavoro sono, il linea di massima, plausibili e fattibili, il tema delle risorse non è quasi del tutto alla portata del sistema stesso.

Al momento della redazione del presente volume, le condizioni del sistema sono più che critiche. I sintomi drammatici sono numerosi e molto evidenti, così come gli elementi di . Proviamo a citarne qualcuno:

  • Pur se non esistono finora dati totalmente comparabili in materia, le risorse economiche destinate al settore sono calate in maniera drammatica e vistosa. Calano, contemporaneamente, i budget sanitari e quelli sociali. Con la scomparsa del vincolo dei fondi sociali, gli ambiti territoriali sono liberi di destinare le (poche) risorse a disposizione nei settori considerati più utili. Questo ha portato ad un tremendo calo crescente degli investimenti nelle progettualità dedicate alle prevenzioni ed alle azioni di recupero e di reinserimento nel settore delle dipendenze patologiche.
  • Per quanto riguarda i centri di trattamento dell’area del privato sociale (i centri di trattamento residenziale e semiresidenziale, soprattutto), il sistema delle rette sarebbe governato da un Atto di Intesa tra lo Stato e le regioni. Le quali, però, hanno tardato moltissimo nell’assumerne gli oneri. Il sistema delle rette porta, nel migliore dei casi, a ritardi a volte indicibili e vergognosi nei pagamenti. La crisi finanziaria della sanità pubblica e le condizioni di sofferenza estrema di alcune regioni producono situazioni in cui le organizzazioni creditrici sono costrette a rivolgersi alle Banche e rischiano di vedersi volatilizzate grandi parti dei crediti maturati. Una Comunità Terapeutica è, nella maggioranza dei casi, alla stregua di un fornitore di lampadine o di carta igienica. Con la differenza che (come accade spesso) la fornitura di beni come quelli citati può contare su una qualità scarsa o dubbia del bene offerto o (è , ancora oggi, il caso dei computers o di altre apparecchiature elettriche od elettroniche) l’offerta di fondi di magazzino che,  pur se pagati con grande ritardo, fanno mantenere un certo margine di guadagno. Le prestazioni di una CT pagate con tre, quattro anni di ritardo rendono una gestione, pur parsimoniosa e stringata, di una struttura terapeutica, semplicemente impossibile.
  • Ancora sulle rette delle prestazioni offerte dai centri di trattamento della rete del privato sociale: anche a paragone con altre prestazioni analoghe (le residenze per anziani, le Comunità Teraputiche psichiatrihce, per esempio), le rette previste per l’area delle dipendenze patologiche sfiorano il limite del ridicolo. A sostegno di queste scelte, c’è un enomre malinteso: quello della natura “volontaristica” delle organizzazioni. ma, se da una parte lo Stato offre poco, dall’altro richiede molto: l’Atto di Intesa prima citato definisce i criteri delle piante organiche sia in termini quantitativi, che in termini professionali.
  • sia che si tratti di centri di trattamento dell’area pubblica, che di Enti Accreditati del privato sociale, il personale è paurosamente sotto la soglia indispensabile. Nei primi (i centri pubblici) sono diffusissimi contratti parziali, incarichi più o meno rinnovabili. Inoltre, si sono moltiplicate le figure mediche, a detrimento di quelle psicologiche, sociali ed educative. E questo ha modificato l’asse delle scelte trattamentali quasi solo su quelle basate sui farmaci e non accompagnate adeguatamente da interventi differenti. Nei secondi (i centri di privato sociale) le condizioni di carenza di personale sono identiche, accompagnate da una tendenza a scelte non totalmente qualificanti, come quelle di optare per contratti molto instabili (a progetto, a tempo definito) e assoldando personale laureato (tipo psicologi) come educatori di comunità.
  • Al punto precedente, o come diretta conseguenza dello stesso, nell’ambito del privato sociale non esiste alcuna copertura sindacale, nè di categoria, nè nazionale, nè di struttura. Le Organizzazioni Sindacali non si sono mai occupate del tema e più di una decina di migliaia di operatori non hanno onorati i diritti di tutti gli altri lavoratori. A parità di qualifica professionale, esistono paurose differenze tra chi opera nel settore pubblcio e chi lo fa in quello del privato sociale. Contratti, impegni, condizioni non sono ugualmente verificati e difesi.
  • Conseguenze di questi elementi (certamente, non esaustivi) se ne vedono a tutti i livelli: in primis, il sistema sembra bloccato, vecchio, incapace di evolversi a velocità simile o almeno analoga ai fenomeni ai quali si rivolge.
  • Molti centri di trattamento del privato sociale chiudono o sono in progressivo, fatale dissolvimento. Mancano i pazienti non perchè non vi siano quelli i cui bisogni possono essere coperti adeguatamente da questi centri, ma perchè il servizio pubblcio territoriale finisce rapidamente i budget dedicati. Spesso, questo avviene anche ai primi mesi dell’anno.
  • Si creano liste di attesa, che sono molto problematiche per pazienti come i consumatori problematici di sostanze: una inadeguata copertura di presa in carico e di trattamento aumenta esponenzialmente i rischi per la salute del soggetto e della comunità.

È del tutto chiaro che non si vuole, qui, pretendere di risalire la china delle “risorse possibili” e limitate. Tuttavia, appare evidente che siamo di fronte ad una sottovalutazione netta dei bisogni, anche di quelli emergenti.

Qualche esempio: le informazioni attendibili a livello mondiale mostrano che è aumentata in maniera vistosissima la disponibilità di cocaina. Sono modificati i pattern di consumo, i soggetti consumatori di cocaina: non solo qualche star dello spettacolo, qualche intellettuale ed uno stuolo di manager (e di politici). Abbiamo evidenza di consumi diffusi in popolazioni giovanili, di sola cocaina od accompagnata da alcool e dall’assunzione contemporanea di altre sostanze.

Il sistema attuale è fortemente inadeguato ad intevenire: basato ancora quasi totalmente sul profilo del dipendente da eroina, non riesce ad essere attraente, nè a dimostrare una sufficiente capacità di ritenzione per questi soggetti.

Altre informazioni assai chiare, mostrano che nei paesi produttori di oppio (l’Afganistan ne produrrebbe quasi il 90%) è in atto una forte corsa all’aumento della produzione. Assieme alle capacità di lavorazione (fino a dieci anni fa, solo il 25% del prodotto veniva lavorato in loco per produrre morfina base; ora, sembra superato il tetto del 75%), si ha notizia di un immenso stoccaggio di oppio e morfina, non ancora diffuse sul mercato. Cosa succederà? Certamente, una parte dell’eroina raggiungerà progressivamente mercati nuovi, non saturi; dopo la Russia, potrebbe toccare alla Cina e ad altri paesi asiatici che sembrano in grado di assorbirla, anche grazie ad aumentate capacità economiche. Ma una notevole parte di eroina si riverserà nei mercati e nei paesi in cui sembrava che gli oppiacei avessero raggiunto un culmine di diffusione e si fosse di fronte a graduale diminuzione.

Anche qui, quali possono essere i nuovi scenari? Un consumo diffuso di eroina, con modalitòà di assunzione differenti da qulla per via endovenosa? Un consumo per via fumata di miscela con cocaina? Saremmo di fronte ad un’invasione di crack, molto conosciuto iìnegli USA, quasi per nulla da noi.

Il nostro sistema di risposte, i trattamenti, i centri, gli operatori hanno conoscenze, strumenti, risorse per farne fronte?

Ultimo punto: secondo il rapporto annuale 2007 della Direzione Centrale Servizi Antidroga del Ministero dell’Interno, le droghe sintetiche stanno invadendo il mercato italiano. A indicarlo e’ il boom di sequestri: +500%. Una crescita a tre cifre che segna un nuovo record: piu’ di 30mila chili di droga e oltre 3,4 milioni di dosi sottratti al mercato negli ultimi dodici mesi. Anfetamine ed ecstasy le droghe chimiche preferite. A incentivare il mercato ci pensano i prezzi stracciati. Se hashish e marijuana perdono clienti, la globalizzazione incrementa il consumo delle sostanze etniche: khat, ketamina e shaboo.

Ed, ancora: quale è la capacità diu risposta specifica e rinnovata del sistema italiano?

Una volta giusto vanto del nostro Paese per la sua presenza capillare e completa., esso è appare ora “decotto”, incapace di evolvere verso le nuove sfide, debellato dalla mancanza di attenzioni e di risorse.

Questa situazione definisce con grandissima evidenza le condizioni di difficoltà di chi ci lavora e pone la questione delle risorse come uno dei fattori di rischio non solo per il sistema, ma anche per gli operatori e per le condizioni in cui si svolge ilo loro intervento.

Una ultima considerazione connessa strettamente alla questione delle risorse: è sotto gli occhi di tutti la deriva ideoloigca e moralistica con cui si “discute” di droga. Assoldare la questione delle droghe (sia sul versante dei diritti, che su quello delle risorse) al gruppo dei problemi “eticamente sensibili” si trasforma in un poderoso uppercut per chi lavora nel settore. Se chi usa ed abusa di sostanze deve essere represso (o, in forma “codina”, invitato o costretto a smettere), perdono terreno e credibilità le possibilità di prendersi in carico i soggetti definiti “pazienti”, restano al massimo le scelte “educative”, cedono le opzioni di rafforzare l’intervento all’interno del sistema sociale e sanitario.

Insomma, tutto potrebbe accadere, fuorché il rafforzamento di quegli elementi che sono alla base di una dignitosa visione di un lavoro difficile in un ambito mutante.

Le complicazioni di stress, disagio e burn out sono chiaramente conseguenze attese.


[1] A. Orsenigo, “Introduzione” a: C. Regalia, A. Bruno (a cura di), Valutazione e qualità nei servizi, Milano, Unicopli, 2000, p. 8

[2] Cfr. AA.VV., “Ridefinire metodologie  strumenti di valutazione in una prospettiva dialogica”, Spunti, n. 7, 2003, pp. 69 e segg.

[3] In proposito: R. Siza, La programmazione e le relazioni sociali, Milano, Angeli, 1994; Progettare nel sociale, Milano, Angeli, 2002; M. Palombo, Il processo di valutazione, Milano, Angeli, 2002. Sul tema cruciale della razionalità limitata: H. Simon, La ragione nelle vicende umane, Bologna, Il Mulino, 1984

[4] In proposito, si rimanda soprattutto alla produzione Isfol su questa specifica materia

[5] ECM: Educazione Continua in Medicina

[6] Questa è una considerazione di cui gli autori si prendono totalmente la responsabilità e che non è del tutto chiara nelle risposte ai questionari ed alle interviste.