“Ora volerai, Fortunata, respira (…). Apri le ali…il cielo sarà tutto tuo”[fusion_builder_container hundred_percent=”yes” overflow=”visible”][fusion_builder_row][fusion_builder_column type=”1_1″ background_position=”left top” background_color=”” border_size=”” border_color=”” border_style=”solid” spacing=”yes” background_image=”” background_repeat=”no-repeat” padding=”” margin_top=”0px” margin_bottom=”0px” class=”” id=”” animation_type=”” animation_speed=”0.3″ animation_direction=”left” hide_on_mobile=”no” center_content=”no” min_height=”none”][1]. Ecco dunque che entro in “stanza”. L’idea che dietro lo specchio ci sia il didatta e il gruppo mi è di conforto da un lato e mi crea l’imbarazzo di essere osservata e giudicata mentre agisco qualcosa che da mesi preparo psicologicamente, ma che non ho mai fatto prima, con la paura di non essere all’altezza.

Il caso ci viene inviato da una psichiatra che da due anni segue sul piano farmacologico una donna di 60 anni, sposata e con due figli di 25 e 30 anni. La dottoressa ci descrive una donna con vissuti di colpa e auto-svalutazione dovuti ad una mamma molto dura e autoritaria, con la quale i rapporti sono sempre stati difficili.

Alla luce di questi racconti, si è deciso di ascoltare la storia di questa famiglia e fin da subito è emersa la rabbia del figlio nei confronti di una madre incapace di dimostrare affetto: lei subito si difende dicendo che “sono cresciuta con certe regole e ci sono diventata adulta con quelle idee. Io ho fatto la madre solo come la sapevo fare”.

La signora parla di sé come di una bambina che viveva sempre nel terrore delle percosse e amareggiata per non aver mai ricevuto delle scuse per tutte le umiliazioni subite. E lei aveva mai chiesto scusa ai suoi figli? Sposto le sedie e li faccio mettere gli uni di fronte agli altri, li invito a prendersi le mani e spontaneamente in un fiume di lacrime dice: “scusate bimbi miei”. C’è tensione nella stanza, c’è rabbia, c’è delusione, c’è amore e “se la pelle è bruciata, anche una carezza data nel modo più delicato, può far male”.

Qualche mese dopo la signora ci comunica che sua madre è morta ed ha quindi deciso di trasferirsi nella sua vecchia casa per accudire il padre anziano e il fratello disabile. Il punto più importante è che i figli si sono molto risentiti di questa decisione avvenuta senza chiedere il loro parere. Si sono sentiti abbandonati? Era evidente che i figli sapevano troppo, si è fatto quindi un lavoro strutturale al fine di detriangolarli e tirarli fuori dal “gioco della coppia”, rimettendoli così nel loro ruolo. I tempi erano ormai maturi e per la volta successiva convoco solo marito e moglie, senza alcuna replica da parte dei figli. Le sedute con la coppia si susseguono con regolarità e ogni volta che li incontro sembrano più rilassati della volta precedente. Ancora fanno molta fatica ad ammettere che il loro rapporto ha preso una piega diversa e cerco di far notare loro come stiano riuscendo a prendersi cura l’uno dell’altra: il marito le porta la colazione a letto, fa la spesa e organizza il pranzo, così lei ha modo di occuparsi del padre e del fratello. La moglie si sente tranquilla perché c’è una persona che fa le cose per lei, è commossa.

Le sedute avevano inizialmente una cadenza quindicinale, si è pensato successivamente di dilatare il ritmo degli  incontri anche di mese in mese. L’emergenza che portavano precedentemente è ormai venuta meno e il clima che si respira all’interno della stanza di terapia è indubbiamente disteso e positivo. Questo mi ha fatto optare per dei follow up a distanza di tre mesi.

Le antiche intromissioni dei figli nella vita della coppia, sono ormai cessate tanto che la ragazza vuole andare a convivere, finalmente sente di potersi permettere una propria famiglia e una propria identità affettiva. Il figlio invece è rimasto a vivere da solo, nei fine settimana lo raggiunge la fidanzata, fanno le prove generali per una convivenza.

Chiara Cannizzaro

 

Riferimenti bibliografici

[1] L Sepulveda, Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare, Salani, 1996
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