Sabato 13 febbraio in occasione della commemorazione di Gigi Onnis è stato chiesto a tutti noi presenti ex allievi, allievi, didatti, amici, suoi affiliati a vario titolo di continuare a scrivere ricordi e pensieri. In questi giorni mi ha risuonato dentro la frase: questo sono io.
Caterina la moglie del prof (per me sarà sempre il prof) ci ha raccontato che l’ espressione “questo sono io” è stata pronunciata davanti alla valutazione dell’indice del suo nuovo libro pochi giorni prima della morte. Da sabato molte corde emotive hanno iniziato a vibrare collegandosi al mio principale lavoro clinico: io sono una psicologa, psicoterapeuta che lavora presso il Centro SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica) del policlinico Umberto I diretto dal prof. Inghilleri. Ho incontrato la sclerosi laterale amiotrofica e i malati poco dopo aver terminato il mio training formativo a IEFCOS. Ricordo ancora lo spaesamento della prima riunione di equipe quando il mondo medico parlava con termini a me all’epoca incomprensibili di nutrizione assistita, ventilazione non invasiva e invasiva etc. Ricordo la prima paziente e il senso di impotenza nel starle accanto. Ma poi piano piano è cresciuta la fierezza di riuscire a stare vicino a chi stava perdendo tutte le sue facoltà motorie, tentando in ogni incontro di riconoscere nell’altro la persona che era al precedente colloquio, anche se con qualche funzione in meno (oggi non muovo un dito, tra un po’ il braccio, e così via). In questo percorso di avvicinamento alla malattia, ma soprattutto alle persone malate e ai loro familiari molto mi hanno aiutato le chiacchierate con l’associazione Viva la Vita Onlus (associazione di riferimento per pazienti e familiari affetti da SLA); come mi è stato insegnato durante il mio training di terapeuta familiare le risorse e le informazioni vanno prese e individuate in tutti i sistemi (formali e informali). Più imparavo a decodificare i messaggi del mondo medico, per riportarli con tonalità emotivamente comprensibili ai pazienti, più mi ritornavano in mente le ridefinizioni di fine seduta che tante volte avevo ascoltato durante il mio tirocinio con il prof. Quelle che all’epoca chiamavo, senza farmi sentire, le ridefinizioni in positivo dell’impossibile. La possibilità e la caparbietà di cercare con costanza il bello, il positivo laddove sembrava non esserci nulla di buono così che il bello potesse contagiare il resto è il più grande insegnamento del prof. E’ la gemma preziosa che porto con me e che accarezzo come un talismano ogni volta che inizio un colloquio soprattutto con i pazienti SLA. A volte è francamente difficile trovare del positivo, soprattutto quando l’assistenza infermieristica, sociale, medica a domicilio è a macchia di leopardo; quando viene effettuata una richiesta di sostegno psicologico e si scopre che ciò di cui la famiglia ha bisogno è del denaro per pagarsi un assistente familiare; quando il paziente ti racconta (attraverso un sintetizzatore vocale di un tablet) che durante la visita per il riconoscimento dell’invalidità vocalizza “buongiorno” e il medico dice “che paura”. Nei momenti più assurdi e scoraggianti mi ritornano in mente gli occhi miopi del prof e cerco il positivo. A volte il positivo è proprio dato dal fatto che io in qualità di psicologo non mi sottraggo, ascolto e insieme ai pazienti cerco soluzioni, rischiando anche di non trovarne: ma insieme.
In questi anni di lavoro mi sembra sempre di più che per queste persone la bellezza dell’incontro, soprattutto negli stadi avanzati, quando si debbono prendere decisioni importanti (vivo attaccato ad una macchina per respirare o muoio) stia nella possibilità che l’altro (sia esso psicologo, medico, infermiere, etc.) gli dia la possibilità di esistere, ovvero di dire questo sono io, qualsiasi sia la decisione da prendere.
Grazie prof.
Alessia Pizzimenti