Tra segreto e vergogna
Prefazione
Maurizio Coletti
Il libro che vi apprestate a leggere è notevole sotto diversi punti di vista.
Primo: il tema. È di quelli che fanno molta impressione. Anche se capiremo che non è un fenomeno la cui comparsa è recentissima (vi sono forti segnali di essa nella letteratura, nelle leggende del mondo antico, così come di quello dell’Età Media; sicuramente, estremamente più frequente la citazione di conflitti e violenze tra padri e figli). Ma fino all’inizio di questo secolo, non ha generato alcuna preoccupazione sociale massiccia) e viviamo in epoche in cui la violenza tra esseri umani (al di là di guerre e conflitti armati) sembra dilagare, l’idea che i figli siano violenti con i genitori provoca sconcerto, paura, rabbia. È un’altra di quelle dimensioni che ci fa riflettere (amaramente) sui tempi cambiati. Una condizione esattamente opposta a quella del padre-padrone descritto da Gavino Ledda nel suo romanzo che è stato pubblicato nel 1975 e che è divenuto un film dei fratelli Taviani nel 1977 (che al 30° Festival di Cannes vinse la Palma d’Oro come miglior film). Il libro, mi informa Wikipedia, è stato tradotto in 40 lingue. Sul “padre padrone” abbiamo discusso sulla violenza intra familiare verso i figli, verso le donne; ma anche di civiltà arcaica, di tradizioni contadine. Così, si poteva discettare su gerarchie crudeli e vessatorie, su botte, su limitazioni della libertà; ma, al tempo stesso, potevamo prendere le distanze: figuriamoci, la Sardegna profonda, la campagna, tutte cose tanto diverse dalle nostre vite e dalle nostre esperienze familiari. Inoltre, il libro di Ledda contiene una sorta di “happy end”: pur se attraverso sacrifici infinite grazie alla scuola, al servizio di leva obbligatorio e ad una serie di episodi di reciproca violenza, il protagonista Gavino si affranca e riesce a trovare le forme per decidere le proprie sorti in modo autonomo. Il tema della violenza intra familiare, ormai da molto tempo, include la violenza di genere e sono sorte numerose occasioni per ribellarsi a queste condizioni: manifestazioni, scritti, film, fino a giungere a normative legislative.
Allo stesso tempo, c’è ormai una grande attenzione ai comportamenti violenti e repressivi dei genitori verso bambini e figli. Pur senza arrivare nemmeno a sfiorare gli estremi illustrati da Ledda e dai Taviani, un genitore che picchia un bambino o una bambina per la strada sarà, probabilmente, affrontato quantomeno verbalmente da qualcuno. La Magistratura ha alzato il livello di guardia ed esistono molti casi in cui genitori troppo violenti siano resi meno offensivi da provvedimenti giudiziari[1].
La violenza filio parentale, invece, sembra soffocata da una vergogna e da una rimozione collettiva.
Eppure, nella storia, è sempre stato massicciamente presente l’imperativo che ruotava attorno al divieto per i figli di fare violenza ai genitori.
Le tre religioni monoteiste sono, su questo punto, inflessibili.
La religione cattolica declina questo imperativo nei Dieci Comandamenti. Il quarto Comandamento recita: “Onora tuo padre e tua madre”, mentre, nella versione ebraica tradizionale (Libro dell’Esodo), si legge: “Onora tuo padre e tua madre, affinché si prolunghino i tuoi giorni sulla terra che il Signore Dio tuo ti dà”. Ancora, nella tradizione ebraica contenuta nella Torah, si afferma che i patriarchi saranno giudicati proprio dalla misura dell’obbedienza e del rispetto verso i genitori. Ancora, molti esempi vengono a sottolineare questo concetto come quello di Ismaele che viene allontanato dalla casa della famiglia dopo avere mancato di rispetto alla matrigna.
Anche nel Corano troviamo molte affermazioni simili. Lì dove un comportamento rispettoso e buono dei figli verso i genitori, viene ad incardinarsi direttamente all’adorazione di Allah. Allàh, l’Altissimo, non accetta l’adorazione da chi non rispetta i genitori e non si comporta nei loro confronti con amore filiale, né accetta da qualcuno un ringraziamento, se questo qualcuno non è riconoscente nei confronti dei genitori. Dice un iman: “Un giorno un uomo si recò dal Profeta che Allàh lo benedica e l’abbia in gloria e gli chiese: O Apostolo di Allàh, a chi è dovuto il massimo rispetto? Rispose: A tua madre! Disse l’uomo: E a chi dopo? Rispose: A tua madre! Disse l’uomo: E a chi dopo? A tua madre! Insistette l’uomo: E a chi dopo? Rispose: A tuo padre. Su questi insegnamenti era basata l’educazione dei Compagni del Profeta, che Allàh lo benedica e l’abbia in gloria, e della generazione che ha seguito loro sulla via di Allàh, l’Altissimo e della terza generazione. Questi sono i principi che governano la famiglia islamica, che è basata sull’amore e sul rispetto reciproco tra i suoi componenti e che insegna ai piccoli il rispetto per le persone anziane e la tenerezza verso i bambini”.
Questi requisiti, come sembra chiaro, sono molto simili e dettano la legge divina in materia di comportamenti dei figli verso i genitori.
Secondo: la lettura degli autori. La chiave di volta che gli estensori propongono è molto netta: a prescindere dal fatto che non si può abdicare all’obbligo di condanna del violento e di solidarietà con le sue vittime ed evitando di imbarcarsi in una lettura ed una assoluzione pseudo sociologica o pseudo psicologica, si propone l’idea dei comportamenti violenti come una tessera di un puzzle di relazioni e storie individuali e familiari all’interno dei quali la violenza stessa assume altri significati e appare come “funzionale alle disfunzionalità familiari”. L’apertura alla lettura sistemica e familiare richiama una quantità straordinaria di fattori, aprendo la mente e la pratica clinica a scenari nuovi e promettenti. Si opta, coerentemente, per mettere in secondo piano le cause “neurocentriche” tanto di moda per “spiegare” ogni tipo di comportamento degli individui. E si rende possibile e credibile l’incontro tra le letture individuali e le letture familiari e sociali. La compatibilità tra i vissuti individuali e le funzionalità e disfunzionalità di un sistema familiare è alla base della lettura e dell’intervento. La storia degli individui si collega con quella delle famiglie, anche delle famiglie di origine dei genitori dalle quali si può trarre gli imprinting che verranno utilizzati nella educazione dei figli e nella costruzione delle relazioni tra i componenti del sistema familiare. Gli autori propongono un ventaglio di interventi diversi per approccio (educativo, strutturale, ridefinitorio) che si mette in pratica a seconda delle situazioni, della storia, dello spazio che gli operatori hanno, della gravità della situazione incontrata. Dopo le prime sedute, di definiscono le caratteristiche del caso e gli obiettivi che si tenterà di raggiungere. Assai interessante e promettente è la messa in opera di un Protocollo di Intervento che, lungi dall’essere una condizione di compressione e di ripetizione, offre una visione delle fasi dell’intervento chiara e condivisibile.
Terzo: l’intervento e la sua efficacia. Le basi bibliografiche, le esemplificazioni cliniche, le descrizioni , i suggerimenti e le considerazioni degli autori portano alla conclusione che è possibile affrontare la Violenza Filio Parentale con un approccio che non corre il rischio di “essere di parte” (dalla parte delle vittime o dei carnefici), che ricostruisce pazientemente le ragioni, i vissuti e le fragilità di ognuno dei partecipanti (della famiglia, tutta) e permette innanzitutto di verbalizzare ciò che si trova “dentro” e che “esce” solo con gli atti violenti. Poi, permette di trovare nuove cornici di lettura e di interpretazione in cui ognuno si possa gradualmente riconoscere. Infine, di liberare risorse e possibilità che possano fare a meno della violenza e propongano nuovi pattern più soddisfacenti e meno rischiosi.
Inevitabilmente, si è portati a fare i paragoni tra Italia e Spagna. Per quanto riguarda i dati, la sensibilità, le letture e le possibilità di risposte adeguate. Roberto Pereira stesso sembra mostrarsi sorpreso della velocità con cui il tema ha preso quota e si è imposto nell’agenda e nelle priorità dei policy makers (nazionali, regionali e locali), dei mass media, dell’opinione pubblica nel Paese Iberico. È straordinario e da sottolineare anche la massiva risposta degli operatori, degli esperti, delle loro Organizzazioni; si realizzano conferenze, gruppi di studio, confronti, corsi di aggiornamento, articoli. Probabilmente, non è solo l’Italia (tra i Paesi europei e di cultura occidentale) in cui non si riscontra attenzione ed interesse. Ma, partiamo dall’Italia, segnalando tre aspetti clamorosi:
- La
carenza di dati e di riscontri. Certo, è possibile che questo sia dato dal
fatto che il fenomeno stesso non ha rilevanza quantitativa, epidemiologica. Ma
è arduo crederlo. Queste carenze si riferiscono a indagini generali e di
popolazione, a studi specifici, perfino a dati di cronaca. Grazie alla
disponibilità della dottoressa Carolina Carè, ho potuto rendermi conto che i
principali giornali e messi di comunicazione non riportano molto frequentemente
casi di Violenza Filio Parentale. Nei relativamente rari casi in cui lo fanno,
prevalgono tre categorie:
- I casi di violenza estrema, gli omicidi con i genitori come vittime. Pietro Maso, Doretta Graneris, Leonardo Caretta, Erika Di Nardo, Carlo Nicolini, Igor Diana, Valerio Ullasci sono tra gli esempi più conosciuti. Non sempre adolescenti (la categoria per cui la Violenza Filio Parentale descritta in questo libro si riferisce nella sua pratica totalità), hanno comunque robuste somiglianze per quanto attiene alla pessima qualità delle relazioni familiari precedenti, al fatto (anche possibile) che gli omicidi non si producono inaspettatamente, al fatto che anche queste famiglie vengono descritte come isolate e che gli eventi precedenti erano stati nascosti per vergogna o per altre ragioni;
- I casi in cui il motivo della violenza è soprattutto legato alla richiesta di denaro, spesso per pagare sostanze da usare. Questi casi sono ben descritti nel libro e
- videogichi
- La mancanza di precedenti giudiziari consistenti. Non mi consta che la Giustizia Minorile si occupa della VFP con continuità. Le memorie annuali ruotano nella massima parte attorno alle violenze ed ai maltrattamenti verso bambini ed adolescenti. Probabilmente, anche a causa dei sentimenti di vergogna dei genitori vittime di violenza e di un già citato (come la vergogna) senso di “protezione” del figlio dalla Giustizia, le denunce sembrano proprio rare e casuali. Ovviamente, fino a quando la violenza esercitata non giunga a un culmine che si traduce in omicidi o atti violenti estremi.
- La carenza drammatica di punti di riferimento territoriali. Qui (anche qui) siamo costretti ad osservare le conseguenze di un paio di decenni di tagli lineari, che hanno colpito l’insieme dei Servizi Pubblici e di quelli Accreditati dei settori sanitario, sociosanitario , scolastico e sociale. Una vera strage di servizi, di esperienze, di possibilità territoriali che esclude dalle possibilità di essere accolti, ascoltati, indirizzati, presi in carico e sostenuti soggetti fragili, isolati, sofferenti. Consumatori di sostanze, famiglie multiproblematiche, minori portatori di disabilità o di sintomi dell’area dell’apprendimento, delle problematiche alimentari, genitori in estrema difficoltà, genitori affidatari o adottivi; tutti soggetti che quasi mai sanno a chi rivolgersi, a chi chiedere aiuto. Resta qualche progetto (con il dramma legato a risorse insufficienti, a tempo limitato e mai trasformabile in interventi a regime. E poche esperienze dirette ai minori, lì dove l’intervento giudiziario arriva, marcate soprattutto da Comunità Terapeutiche, Case Famiglia od altre scarse strutture. Si comprende, allora, come non basti denunciare, eventualmente, l’insorgere di un problema poco conosciuto. La demolizione del sistema di Welfare è tale che nemmeno l’intervento privato tout court riesce ad assorbire casi di VFP. Che hanno, come il libro descrive in maniera convincente, bisogno di reti e di interventi integrati. E di copertura di quelle situazioni che non possono permettersi di pagare tariffe, pur se calmierate.
Ma cosa ci suggerisce ancora questo libro dedicato alla VFP? Che è necessaria anche una lettura del rapporto tra genitori e figli nell’epoca attuale. Lì dove l’insieme delle competenze, delle tradizioni, dei saperi vengono fortemente messi alla prova. Nell’epoca della rinomata “liquidità”, certezze e esperienze pregresse sembrano avere perso per intero il loro valore di guida e di suggerimento.
Il “sociologo della liquidità”, Zygmunt Bauman[2], ci offre a riguardo alcuni spunti nel primo capitolo del libro dal titolo: “Conversazioni tra genitori e figli”. Secondo Bauman , storicamente, siamo di fronte ad un’antica, reciproca incomprensione tra generazioni. Genitori e figli si sono sempre trovati su sponde differenti. Se a questo si aggiunge la velocità impressionante del ritmo dei cambiamenti nella società dei nostri tempi (che rende così inefficace il richiamo genitoriale ai “miei tempi”), è plausibile che genitori e figli si trovino in un pantano, in un inestricabile groviglio di questioni incomprese ed incomprensibili.
Nel sottolineare le paurose difficoltà dei genitori di fronte ai figli che cambiano, l’autore afferma che, fino a un tempo non tanto lontano, i bambini erano visti come “adulti in miniatura”, destinati a crescere secondo tempi e norme conosciuti e quasi immutabili ed a trasformarsi in adulti uguali o almeno simili a loro. Tutto scorreva in acque note e prevedibili. Il padre era la Legge, la madre l’Amore; i nonni erano presenti e le difficoltà familiari (quasi sempre legate a fattori economici o di salute) venivano affrontate in comune.
Non ci vuole
molto a comprendere la siderale distanza con i giorni nostri.
[1] Chissà, forse, onda lunga del sentimento prodotto dal “Padre – padrone” e, come non mancano di segnalare i colleghi spagnoli, con il rischio di una drammatica cancellazione di ogni forma di “pedagogia severa”. Mi risultano molti casi di bambini che minacciano con continuità ed efficacia i genitori di “chiamare Telefono Azzurro”.
[2] Z. Bauman, Cose che abbiamo in comune, 44 lettere dal mondo liquido. Ed Laterza, Bari 2012