da “La comunità terapeutica per persone tossicodipendenti” di Maurizio Coletti e Leopoldo Grosso

La dimensione familiare dell’addiction ha avuto sempre un ruolo importante nella clinica delle CCTT.

Così come accade ancora molto spesso per i trattamenti in generale, sono frequentemente i familiari a prendere il primo contatto con le strutture residenziali. Durante gli anni ’70 e fino agli  inizi degli anni ’90,   ai servizi, alle CT, ai centri di ascolto, ai centri di trattamento era quasi sempre un familiare che si presentava per chiedere aiuto per un figlio, un fratello consumatore problematico.

Molte reti di CCTT (in Italia ed all’estero) hanno organizzato degli incontri settimanali per i parenti dei tossicodipendenti che rifiutavano qualsiasi ipotesi di trattamento. Questi incontri potevano essere diretti da un operatore professionale, da un altro familiare particolarmente dedicato e dotato di comunicativa, da un operatore proveniente dal programma. Quasi sempre, gli scopi di questi incontri erano due:

  1. Offrire informazioni generali e specifiche sui temi delle sostanze, dei loro effetti, dei rischi sanitari, psicologici, sociali e legali ad esse connessi
  2. Offrire informazioni ed indicazioni sul funzionamento del programma residenziale
  3. Permettere un’uscita da una condizione di angoscia, di sofferenza, di vergogna provate per il problema della droga, attraverso la messa in comune tra i partecipanti delle esperienze, dei tentativi, degli errori
  4. Cercare ed offrire indicazioni concrete nei singoli casi, con il fine di “convincere” o “costringere” il tossicodipendente a recarsi presso la struttura per iniziare un programma di recupero.

Queste esperienze di coinvolgimento dei familiari nella fase di pre-trattamento sono state tanto diffuse, quanto poco tracciabili e studiate. Non esiste altro, se non alcuni documenti puramente descrittivi delle esperienze citate.

Normalmente, al momento dell’avvio vero e proprio del programma residenziale, è richiesto che un familiare accompagni il paziente e si dichiari come il “referente” della famiglia per tutta la sua durata. Ai familiare (o, i familiari) che accompagna il paziente è richiesto di  firmare la loro parte del contratto terapeutico ed al paziente di firmare l’autorizzazione affinché sia possibile informare la sua famiglia sull’andamento futuro del programma terapeutico.

Durante il trattamento e “doppiata” la fase di black out, è molto diffusa la pratica di chiedere ai familiari di partecipare ad una visita mensile al paziente.

Quasi sempre, queste visite si svolgono nei locali della CT e si articolano nei seguenti moduli:

  1. Un incontro con lo staff che “restituisce” l’opinione dello staff sul percorso del paziente
  2. Un incontro “privato” dei familiari con il paziente, a cui è spesso richiesto di mostrare i locali della CT e spiegare la vita in comune, i suoi rituali ed i suoi appuntamenti
  3. Un incontro di gruppo piuttosto simile a quello già descritto per la fase pre-comunitaria

Si tende a informare immediatamente la famiglia su tutti i problemi che dovessero sorgere durante un trattamento comunitario: drop out, ricadute, fughe, problemi sanitari e di altro genere.

Nelle fasi successive, la famiglia viene coinvolta nei “rientri” e si presta speciale attenzione a capire se l’ambiente di casa possa aiutare (o, al contrario: impedire) l’evoluzione del paziente. Ciò che accade nei rientri non è solo oggetto di discussioni approfondite quando il paziente ritorna in CT, ma anche nelle visite mensili delle famiglie alla CT.

Infine, quando si ritiene che il percorso comunitario stia per terminare, si pone il problema di dove il paziente possa risiedere all’uscita. Quando non è previsto, o non è possibile avviare una fase successiva a quella propriamente residenziale (centrata su un periodo da passare fuori dalla CT, ma ancora sotto l’influenza della struttura e dei suoi operatori), si può porre il problema di “preparare” la famiglia di origine ed il paziente ad una nuova fase di vita in comune. Sono indispensabili, allora, altri incontri più specificatamente destinati a capire se le relazioni tra i membri della famiglia sono abbastanza mutate, da permettere al paziente di beneficiare dei risultati ottenuti in CT.

Alcune reti di CCTT hanno organizzato programmi specifici che accompagnano la residenzialità, chiamati “Terapia Familiare Parallela”; si tratta di una serie scadenzata di incontri con la famiglia ed il paziente che spesso si svolgono in locali diversi da quelli della CT e che sono condotti da personale qualificato. Gli obiettivi della Terapia Familiare Parallela sono quelli di identificare la storia delle relazioni disfunzionali che hanno accompagnato il sorgere del consumo di droghe e la sua evoluzione in consumo patologico, di raccogliere e riformulare le emozioni ed i vissuti dei membri della famiglia, di identificare le potenzialità del gruppo, di fornire indicazioni e prescrizioni di comportamento che possono essere la base per una modificazione delle relazioni patologiche esistenti all’interno del gruppo, o di preparare il rientro conclusivo del soggetto nel nucleo familiare originario.

Un insieme di azioni e di interventi abbastanza  rilevante, dunque. Come già affermato, assai poco approfondito dalla letteratura e studiato specificatamente. Non esistono nemmeno molti riscontri adeguati nei numerosi corsi di formazione, di aggiornamento, di training che sono stati e sono disponibili per gli operatori di Comunità Terapeutica per tossicodipendenze, a parte di quelle realtà che sono state più fortemente influenzate dalla presenza di personale con una formazione post-universitaria di Terapia Familiare.

C’è, allora, da chiedersi che tipo di rapporto si instauri tra la CT e le famiglie dei suoi ospiti; qual è il paradigma che è implicito negli interventi di comunità a proposito della famiglia, quali sono i pregiudizi o le idee sottostanti a riguardo del rapporto tra la famiglia, il suo funzionamento (o, disfuzionamento) e il tossicodipendente.

La CT è una collettività di individui i quali, volontariamente, si distaccano dall’ambiente, dal contesto, dal sistema in cui hanno vissuto fino a quel momento[1][b1] , per vivere in un contesto diverso, organizzato e definito che, molto spesso, assume le sembianze di una “famiglia”.

Ma, mentre la famiglia propriamente detta è considerata come un sistema autopoietico[b2] , con regole implicite, tradizioni, dimensioni multigenerazionali, vicende storiche che si ripetono o si rinnovano nel tempo, la CT è un sistema allopoietico, che ha scopi definiti e definibili nel tempo, le cui regole devono essere esplicite, chiare, basate sul consenso e sul rispetto. I rapporti al suo interno sono chiari in quanto alle differenze tra lo staff e gli ospiti e devono essere continuamente discussi approfonditamente quando comparissero problemi,  tensioni, alleanze improprie.

La “famiglia CT” e la famiglia di appartenenza sono, quindi, entità diverse.

Il rapporto tra queste due entità dovrebbe essere regolato a seconda di obiettivi chiari.

Lo staff, gli operatori dovrebbero chiarire le proprie idee a riguardo. Proviamo, allora, ad ipotizzare alcuni paradigmi su cui si possono basare gli  sulle famiglie:

  1. La famiglia può essere considerata come un’importante risorsa per spingere il tossicodipendente ad intraprendere un percorso comunitario. I membri della famiglia e le loro relazioni reciproche possono essere visti come quasi completamente avulsi dai meccanismi che hanno spinto un loro membro verso l’uso e l’abuso di sostanze
  2. La famiglia può essere considerata, invece, come un sistema disfunzionale che ha favorito od addirittura sostenuto (inconsapevolmente) il ricorso alle sostanze. È il caso in cui vi sia già uno o più membri consumatori (di droghe illegali, di alcool, di farmaci) od in cui vi si possano rintracciare storie di relazioni che “spiegano” il comportamento tossicomane.

Il primo dei paradigmi potrebbe essere definito come “la famiglia vittima”; nel senso che non si rintraccia alcuna connessione significativa tra il funzionamento della famiglia stessa e l’insorgere e lo stabilizzarsi del consumo problematico di droghe. Quest’ultimo è percepito come un evento che colpisce e traumatizza i genitori, i fratelli e le sorelle, i familiari tutti, che sono “travolti” dagli eventi e ne soffrono tremendamente le conseguenze su molti piani.

Il secondo potrebbe essere definito come “la famiglia colpevole” e si basa sull’idea che il ricorso alle sostanze sia una risposta “funzionale” (meglio, disfunzionale) a rapporti e relazioni interne al sistema familiare. Esiste un’abbondante letteratura in merito, che descrive sia la scansione multi generazionale di eventi che porta un membro di un gruppo familiare alle sostanze, sia l’organizzazione ed il funzionamento (ancora e meglio, il dis-funzionamento) del sistema famiglia ed in cui il membro tossicodipendente gioca un ruolo specifico, anche quando sia provocatorio e drammatico

Nel primo caso, la famiglia sarà coinvolta nella fase preliminare, mentre durante la fase residenziale propriamente detta l’incontro con i familiari assume un carattere informativo e di relazioni informali. Si dovrebbe, in questa dimensione, dedicare molte energie al lavoro di supporto e di orientamento della famiglia durante i rientri e, soprattutto, poco prima del “rilascio” del paziente e del suo ritorno in famiglia (quando questo sia considerata l’ipotesi più valida)

Nel secondo caso, invece, è chiaro che occorrerà cercare e trovare delle dimensioni di intervento che includano le relazioni familiari come un oggetto aggiunto del trattamento.

Persino il periodo preliminare alla residenzialità dovrebbe includere una speciale attenzione al funzionamento delle relazioni tra i membri della famiglia. Così come gli incontri periodici nelle sedi delle CCTT dovrebbero essere centrati sull’esplorazione delle relazioni intercorrenti, sulla loro ridefinizione, sulle ipotesi di modificazione. A maggior ragione, gli incontri successivi alla residenzialità, con il rientro del paziente nel contesto di origine, dovrebbero essere basate su un monitoraggio molto attivo del funzionamento della famiglia.

Il fatto che durante la residenzialità accade abbastanza spesso (soprattutto nei colloqui individuali e nei gruppi terapeutici) di parlare della famiglia di origine, potrebbe creare una “doppia verità”: quella che si può ricavare dal racconto del paziente e quella che potrebbe provenire dai suoi familiari.

Per questo è altamente consigliabile che a seguire la famiglia siano, se possibile, operatori dedicati a questo e che vi siano frequenti momenti di contatto e di messa in comune di informazioni e di opinioni tra chi segue la dimensione familiare attraverso il paziente in Comunità e chi segue la famiglia, o solo il gruppo dei familiari senza il paziente.


[1] Fanno eccezione, ovviamente, quei soggetti che vengono direttamente dalla “strada”, i “senza fissa dimora”. Ma anche per costoro, si tratta di cambiare il contesto di relazioni in cui hanno vissuto fino al momento dell’avio del programma residenziale. Non fanno eccezione, invece, i pazienti che vivono in coppia, a volte con figli. Qui si tratta di prendere in considerazione coinvolgimento e storia di due sistemi separati: quello della famiglia di origine e quello della coppia


 [b1]Nota a pié: cfr coppia e td

 [b2]Riferimento teorico