Key words: multiproblem family, social work, integrated intervention, teamwork, systemic approach

Since the term “Multi-Problem Family” (MPF) was established (around the 1980s) there has been a growing awareness of this type of human and social system.

However, the fact that MPF intervention presents a very difficult challenge has also become increasingly clear.

A challenge in terms of the results obtained and required; the severity of the conditions, symptoms and lifestyles; resistance to change; the strain on the emotional systems of the professionals and therapists; and the difficulty in the coordination of the various agencies involved.

The chapter provides a general description of MPF, reviews the existing literature and outlines a typology of the most common scenarios.

It also provides an interpretation and description of actions and possible results.

Particular attention is paid to the need for teamwork (and its inherent difficulties) and to the individual and group emotional rebounds that can result from working with such “extreme” situations.

  1. Introduzione

La famiglia multiproblematica (MPF) è un cliente difficile, difficilissimo.

Chi lavora nei Servizi Sociali impara rapidamente a conoscere questi “sistemi familiari” caotici, ridondanti, che chiedono molto. O che non chiedono nulla, almeno non chiedono quello che potrebbe essere considerato come un vantaggio socialmente inteso.

Rifiutano spesso occasioni di lavoro, possibilità di formazione o di addestramento, talvolta anche occasioni di modificare per il meglio le loro condizioni abitative. Si oppongono, talvolta con violenza a che i membri minori d’età possano avere chance di vivere meglio, in contesti più accoglienti, più protetti, con maggiori prospettive. O che, semplicemente, vadano a scuola, assieme ai loro coetanei; per imparare e per socializzare

Al tempo stesso, chiedono. Chiedono sostegno economico direttamente; o, anche indirettamente attraverso la copertura dei loro debiti per l’affitto, l’elettricità, il gas, le multe. Chiedono pannolini per i bambini, generi alimentari, vestiti.

Ma, soprattutto, sembrano avere una violenta avversione per cambiamenti strutturali. O, cambiamenti tout court.

Da una parte, sono ancorati fortemente a stili di vita che sembrano ai più caotici, disfunzionali, carenti e carenzianti, spesso attraversati da violenza, da consumi problematici, da costumi sessuali che vanno dalla prostituzione “povera” allo stupro (anche di bambini), ai rapporti sessuali non protetti, multipli o comunque privi completamente di un minimo di privacy.

Quando si volesse tentare di suggerire modificazioni o miglioramenti, ci si troverebbe di fronte a rifiuti, a negazioni, a fughe.

Le MPF sono difficili non solo perché rigide (per quanto riguarda gli stili di vita ed i comportamenti “devianti”), ma anche perché scompaiono all’improvviso e senza motivo apparente. Per, poi, ricomparire all’improvviso con altre richieste.

Sono sistemi “allaganti”, si rivolgono a chiunque ed a tutti i servizi ed i centri.

Comportano fatiche molto pronunciate da parte dei care givers; e mettono le stesse organizzazioni a dura prova.

Anche il pensiero e la pratica sistemici sono stati sfidati fortemente dalle MPF; abituati, per esempio, a ragionare di famiglie “enmeshed” e “disengaged”, ci siamo trovati di fronte alle catastrofi in termini organizzativi ed in termini emotivi, in termini educativi e sociali. E, al tempo stesso, a sistemi con nuclei capaci di sviluppare una fortissima, esclusiva, drammatica appartenenza. Inoltre, le condizioni di vita e di relazione così apparentemente sfortunate e avvilenti, non si trasformano quasi mai in richieste coerenti, in ambizioni di cambiamenti più massicci, in impegni a migliorare qualcosa.

E, come si sa, il professionale che ha una formazione sistemica ambisce a creare cose nuove nei sistemi che ha in carico. A far superare le crisi “in avanti”, ad utilizzare i sistemi familiari come risorse per fare stare meglio gli individui. Il professionale sistemico è soddisfatto se riesce a creare le condizioni per i passi in avanti.

Nella cornice della prima cibernetica, si immaginavano due stati “contrapposti”: l’omeostasi ed il cambiamento. La prima era la nemica del sistemico, così come il secondo era considerato il punto massimo di un’ambizione professionale nel lavoro con le famiglie. Pur se il pensiero epistemologico successivo ha ampiamente superato questa suddivisione manichea e sommaria, resta sempre una sensazione amara quando si ha di fronte l’immobilismo e la resistenza anche al più piccolo passo in avanti. Il terapista sistemico soffre notevolmente di fronte a queste situazioni. E, d’altra parte, se Atene piange, Sparta non ride: anche altri professionali con approcci differenti da quello sistemico sono in estrema difficoltà in questo tipo di casi. Ritornerò più in avanti sul tema delle emozioni di chi affronta le MPF, sulle conseguenze delle emozioni, sul come riconoscerle e su come farvi fronte.

  1. Definizione generale e autori e citazioni: la MPF nella letteratura, nella ricerca e nella clinica

A prescindere dalla fase di avvento del pensiero sistemico e delle sue evoluzioni, è possibile affermare che le MPF sono uno dei primi terreni di interventi dei Servizi Sociali (SS).

Possiamo datare la nascita dei SS verso la seconda metà del XIX secolo, soprattutto in UK. Mentre la prima conferenza Internazionale sui SS è del 1928. I SS sono stati riconosciuti come diversi dalle organizzazioni caritatevoli e benefiche basate sul volontariato in tempi diversi a seconda dei Paesi.

Oltre al lavoro sulle persone in difficoltà (poveri, alcoolisti, soggetti sociopatici; ma soprattutto, infanzia disagiata o problematica a causa di malattie organiche o per cause micro o macro ambientali, infanzia abbandonata o poco o per nulla curata), il lavoro sul campo (soprattutto quello comunitario e le visite a domicilio) fanno scoprire la dimensione dei malfunzionamenti del sistema familiare e le loro connessioni con le condizioni socio economiche di questi gruppi.

Come accade in molti campi, la terminologia[1] è varia e, a volte, confondente.

  • Famiglie multiproblematiche (Cancrini 1994, 1997)
  • Famiglie con problemi sociali
  • Famiglie marginalizzate
  • Famiglie «asociali» (Voiland, 1962)
  • Famiglie disorganizzate, caotiche (Minuchin P. et al 2007)
  • Famiglie «precarie»
  • Famiglie «suborganizzate » (Aponte, 1976, 1981)

Tutti questi termini possono fare riferimenti a situazioni analoghe.

Luigi Cancrini (Cancrini 1994, 1997) propone una definizione di MPF che si basa su 5 elementi:

  1. Presenza contemporanea di comportamenti sintomatici in uno o più membri della famiglia;
  2. Mancanze gravi nelle funzioni organizzative ed emozionali.
  3. Rinforzo reciproco tra I primi tre punti (nel senso che più aumenta uno degli indicatori, più aumenta l’altro);
  4. Fragilità dei confini;
  5. Relazione di dipendenza cronica dai servizi di assistenza.

A questi punti, l’autore aggiunge le seguenti caratteristiche:

  • Uno scambio molto limitato di informazioni tra i membri e un’esperienza cognitiva ed emozionale tendenzialmente indifferenziata per ogni membro;
  • Uno uso prevalente dei canali preverbali di comunicazione;
  • Nella maggioranza dei messaggi, si dà più importanza agli aspetti relativi alla relazione, che a quelli relativi ai contenuti;
  • Si percepisce un caos comunicativo, che è indice di disordine relazionale e di disorganizzazione strutturale e che, a sua volta contribuisce a rinforzarlo (Malagoli Togliatti, 1985)

A questo punto, può risultare chiara la differenza tra le famiglie disfunzionali e le MPFs: mentre nelle prime (famiglie disfunzionali)  i comportamenti sintomatici sono abitualmente utili a produrre equilibrio per le difficoltà emozionali degli altri membri della famiglia e per il sistema inteso nella sua interezza, nelle seconde (MPF), i comportamenti sintomatici funzionano come un fattore aggiunto di difficoltà e disgregazione per gli altri membri del sistema familiare (Cancrini, 1997)

Sappiamo che il sistema familiare si evolve attraverso fasi successive e che il passaggio da una fase ad un’altra del suo ciclo vitale (McGoldricket al., 2010) è o può essere caratterizzato da crisi, che permettono ai membri della famiglia di sperimentare nuovi comportamenti, nuove relazioni, nuove acquisizione per quanto riguarda il rapporto di ogni individuo e del sistema nella sua globalità con i microsistemi e macrosistemi esterni alla famiglia stessa.

Cancrini (Cancrini, 1987) afferma che nelle MPFs, la comparsa, la stabilizzazione e l’aumento dei sintomi si verifica con costanza nelle prime fasi delle tappe del ciclo vitale: la costruzione della coppia, la nascita dei figli, l’adolescenza dei figli) e che , se in comportamenti sintomatici sono capaci di bloccare letteralmente il passaggio alle fasi successive, non sono altrettanto efficaci nel mantenere ‘equilibrio della fase precedente; i sintomi producono ancora più disorganizzazione e disgregazione del sistema familiare, agendo in tal modo da costituire:

  • Un disfunzionamento della famiglia che non risulta capace di coprire in maniera soddisfacente i compiti organizzativi (risorse economiche sufficienti, alloggio, istruzione, crescita e sostegno dei bambini, protezione dei membri più deboli del gruppo) ed i compiti emozionali (gestione delle tensioni, nutrimento emozionale dei bambini, garanzia dell’intimità di individui e coppie, stabilità affettiva dei membri);
  • Una ricerca continua ed affannosa di persone esterne capaci di dare risposte ai problemi inclusi nel punto precedente. Questa ricerca (quando completata) riduce progressivamente ed inesorabilmente le competenze dei membri del sistema familiare.

I comportamenti sintomatici (come già affermato) sono molteplici e vari. Possono andare da condotte di cura e mantenimento dei minori inefficaci o inesistenti, a violenza intrafamiliare, a comportamenti dell’area psicotica, a consumi di droghe e di alcool, a esercizio della prostituzione, ad abusi sessuali e fisici, a problemi nell’ottenere e mantenere attività lavorative stabili, a incapacità o rifiuto nel rispettare ‘autorità e le istituzioni, a comportamenti delittivi come furti e sottrazioni.

Sempre Cancrini (Cancrini, 1987) insiste nel definire le MPFs a seconda dei seguenti aspetti specifici e generali:

  • il livello sociale: nella stragrande maggioranza, il livello sociale delle MPFs è basso o bassissimo. Caratterizzate da condizioni di deprivazione economica e culturale, la condizione di miseria risulta aumentare enormemente i fattori di rischio dei comportamenti sintomatici. Spesso provengono da famiglie di immigrati, da famiglie con uno o più membri con lunghe istituzionalizzazioni, da altre famiglie che possono essere considerate multiproblematiche. Discontinue e, al tempo stesso, assillanti nella ricerca di aiuto, normalmente non traggono alcun beneficio stabile da aiuti economici anche quando ripetuti. Un certo numero di caratteristiche delle MPFs si ritrovano anche in sistemi familiari appartenenti a classi sociali medie o, addirittura, alte. Si tratta di casi isolati e molto difficili.
  • le dimensioni: non esiste una dimensione standard delle MPFs anche se è molto frequente imbattersi di nuclei molto numerosi e con molti bambini, anche a causa dell’incapacità ad evitare gravidanze non desiderate. Queste nascite multiple e continue sono difese come un segnale “forte” verso l’insistenza dei servizi che intervengono e che segnalano la pratica impossibilità a curare e nutrire tutti i figli. È come se, soprattutto le madri, volessero esprimere in questa maniera le loro “potenzialità generatrici”. Quasi sempre, i tentativi di procedere con un ritiro della potestà genitoriale (quando messo in pratica: come si spiegherà più avanti, queste persone non sono capaci di seguire gli iter giudiziari e istituzionali) producono reazioni oppositive e violente
  • gli stili di vita: sono lo specchio chiaro delle disorganizzazioni relazionali e organizzative. Abitazioni sporche fino all’inverosimile, con mobili e cianfrusaglie accatastati in maniera tale da impedire il passaggio, servizi igienici mancanti o impraticabili, porta aperta. All’interno, è molto evidente la mancanza di delimitazione degli spazi fisici e di attribuzione di determinate funzioni agli stessi (la camera per dormire, la zona dove si pranza, la zona dove si può vedere la televisione (che non manca mai!). I rapporti tra i membri della MPF sono spesso a rischio di incesto e di violenza sessuale, consumati senza nessuna attenzione per la presenza di bambini od altri membri della famiglia. Il concetto del tempo e degli orari è molto labile, se non inesistente. Questo aspetto si riflette anche nel rapporto con gli operatori ed i servizi, con l’inevitabile conseguenza di appuntamenti mancati, posposti, saltati. Lo stesso caos è riscontrabile nell’alimentazione, sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo. Le esigenze di educazione e di scolarità non sono riconosciute.  L’abbigliamento è carente, sporco e fortemente inappropriato. Questo vale sia per gli adulti che per i bambini. Un ruolo importante gioca la mancanza di risorse economiche, a cui la MPF fa fronte, in maniera incerta e vaga, con attività illegali (vedi oltre) e con assillanti richieste di sussidi economici.
  • il rapporto con legalità: anche questo aspetto è specchio e conseguenza del caos della MPF. Non esiste nessuna attenzione al riconoscimento legale delle unioni, né alla registrazione ufficiale dei figli appena nati. È frequente che questi ultimi risultino assolutamente sconosciuti all’autorità senza documenti, né (in quanto sconosciuti e non registrati) possibilità di accesso ai servizi pubblici, perfino al Pronto Soccorso. Le attività illegali (normalmente, di basso profilo) sono la norma; in caso di conseguenze giudiziarie, i membri di una MPF non si mostrano interessati a seguire l’iter legale. In questo modo, il percorso giudiziario prosegue per conto suo, senza alcuna forma di difesa; e le conseguenze delle sentenze sono spesso molto pesanti, molto più pesanti di quelle che potrebbero essere con un po’ di attenzione da parte degli imputati. Una conseguenza sicura ha a che fare con la “latitanza” o la “contumacia” del presunto colpevole. Spesso, i membri delle MPF sono arrestati e passano periodi anche lunghi in carcere. Sono i tipici soggetti che, in condizioni detentive, accumulano maggiore esperienza delinquenziale.
  • i figli: frequentemente assai numerosi, sono il ponte per richieste pressanti ai Servizi. Le loro condizioni (sia quelle legate alle carenze pratiche, che quelle legate alle carenze funzionali, come la scarsa od inesistente copertura delle funzioni genitoriali) sono sempre il motivo primo e maggiore che determina un intervento dei Sevizi Sociali. Come esemplificato più appresso, le immagini di bambini denutriti, sottoposti a violenza o a carichi di lavoro totalmente inappropriati, vestiti sommariamente, non scolarizzati, senza sorriso e vitalità sono sempre gli aspetti che colpiscono gli operatori e che li trascinano nei tentativi di sostituzione pratica ed emozionale delle carenze riscontrate.

Ritengo utile riportare qui una sorta di classificazione che Luigi Cancrini (Cancrini, 1984) ha proposto delle MPF. Anche se le tipologie dei sistemi (e dei sistemi disfunzionali) danno spesso adito a differenziazioni ed a casi che presentano caratteristiche comuni a diversi casi tipologia, la proposta è interessante, valida ed ancora attuale.

  • Il padre periferico: descritto con efficacia da Salvador Minuchin ed altri (S. Minuchin et al., 1967) e basato sulle esperienze pionieristiche nei ghetti negro e portoricano di Philadelphia, è una tipologia abbastanza frequente anche in gruppi familiari diversi dalle MPFs. Nel caso di queste ultime, si riscontrano padri senza (o con scarsissima) scolarità, senza lavoro o con lavori saltuari e vari, questi uomini on hanno alcun ruolo rilevante nel sistema familiare. Spesso, vengono da esperienze carcerarie ripetute e lunghe, che aumentano il livello di estraneità e di scarsa rilevanza verso i figli e le madri dei figli. In questo caso, è quello che Gilbert Pregno (Pregno G., 1998) ha descritto nel suo lavoro: una figura lontana, assente e per nulla rilevante; quando si parla di lui, in famiglia, spesso si dice “il padre è in carcere). Al contatto con la madre, il profilo è quello di un uomo violento, spesso alcoolista, infedele ed incapace di prendersi cura dei figli e della famiglia, anche solo dal punto di vista economico. con queste premesse, è molto facile che il padre non si presenti al servizio assieme alla madre, per chiedere aiuto. E quest’assenza si trasformerà in un grande problema nel corso dell’intervento stesso. Allo stesso tempo, la madre occupa tutta la scena e disimpegna (come può) tutti i ruoli. Nel caso di una unione matrimoniale più o meno ufficiale, la posizione periferica, assente, non rilevante dell’uomo non produce conseguenze legali come separazione o divorzio nemmeno se la moglie-madre trovo un altro partner ed inizia una convivenza. Un’altra curiosa ripetizione è quella relativa alle assenze del padre dagli incontri familiari: raramente la madre di discosta dall’offrire una specie di “scusa” per il padre assente. Dirà che è a causa del lavoro, del fatto che non può perdere tempo. La madre non riconosce apertamente la posizione periferica del padre, anzi sembra dargli una certa, teorica importanza. Di fatto, l’assenza del padre (anche dagli incontri con gli operatori) permette alla madre di coprire tutto il campo, di decidere, di contare sempre e di più. Una sorta di rinforzo all’organizzazione del sistema familiare basato sulle condizioni sopra descritte.
  • La coppia instabile: si tratta, qui, di due soggetti giovani, talvolta molto giovani. A causa di comportamenti quali i ripetuti insuccessi scolastici, il consumo di sostanze, piccola delinquenza ed una certa tendenza agli eccessi di ogni genere, i due si ritrovano in una coppia molto poco matura. Quasi sempre, vi sono dei figli indesiderati. Così, la coppia è spinta a prendersi alcune responsabilità; ma, essendo ambedue molto poco in grado di farlo, sorgono conflitti molto pronunciati, che possono coinvolgere anche i figli e che riducono gli spazi per una vita sufficientemente equilibrata. Ad un certo punto, uno dei partner si allontana e chi rimane dovrebbe farsi carico dei figli. In questa situazione, è frequente che si faccia ricorso alla famiglia di origine come “famiglia sostituta”; in genere è la madre di chi resta con i figli a farsene carico, mentre il figlio/la figlia tenta (senza molto successo) di trovare un lavoro. Il partner che si è allontanato può, talvolta, tornare reclamando denaro o la potestà sui figli; spesso con il supporto della propria famiglia di origine. Il che porta a conflitti che posso essere molto pesanti, con il coinvolgimento della Magistratura dei Minori. La configurazione che prevede che la madre del partner che resta con i figli svolga un certo ruolo materno, ricorda quella configurazione della “nonna assente” (Minuchin S. et al, 1967); così definita perché è in realtà la nonna a curare i nipoti (ed anche il figlio – figlia), attuando interamente da madre e quindi creando le condizioni per l’assenza del ruolo e delle funzioni tipiche della nonna.
  • La donna sola: si tratta, qui, di un nucleo che ruota attorno ad un’unica figura: una donna che ha spesso patito in passato di lunghi periodi di istituzionalizzazione, che decide di far crescere completamente da sola i figli. Questi sono stati concepiti con uomini diversi. I partner della “donna sola” sono fugaci presenze che non instaurano un vincolo minimamente stabile. Il vantaggio di questi partner, talvolta, è di avere un letto in cui dormire e qualcosa da mangiare. Il vantaggio della donna è di avere in casa una presenza provvisoria che può darle la sensazione di una coppia. Il partner occasionale è spesso violento; maltratta e talvolta abusa dei figli della donna. Sono situazioni in cui le scarse entrate possono essere garantite dall’esercizio di prostituzione, spesso esercitato nello stesso luogo in cui la donna ed i figli vivono.
  • La famiglia “pietrificata”: in questo ultimo tipo di famiglia multiproblematica, si contempla un sistema familiare che viene colpito da un evento drammatico, spesso para normativo. Una famiglia in cui i sintomi potevano avere un ruolo “classico” di del ciclo vitale, un accadimento improvviso ed imprevisto (morte accidentale, sparizione di un membro significativo, intervento intempestivo della Giustizia) crea le condizioni per la creazione del circolo vizioso tra disorganizzazione, presenza di comportamenti sintomatici, incapacità a coprire le funzioni tipiche in un gruppo di questo genere. La famiglia appare pietrificata attorno agli eventi e le cose possono andare solo peggio. È da notare che le condizioni di partenza di queste famiglie sono nettamente più favorevoli di quelle delle famiglie (o sistemi) descritti in precedenza. Questo tipo di famiglia è più infrequente ed è stato rilevato durante le attività del progetto “Viva Palermo Viva” : Cancrini (Cancrini, 1994) le collega anche con i delitti di mafia, in cui un membro della famiglia scompare; si dà per certo che sia stato ucciso in modo efferato, ma il fatto di non riuscire a trovare il cadavere non permette l’elaborazione dei riti di saluto e di congedo con il deceduto, che (soprattutto nel Sud dell’Italia) hanno un valore fortemente simbolico  in un certo senso) liberatorio.
  • La MPF quando appare ai curanti ed ai servizi. La moltitudine di servizi

Come già affermato, l’arrivo di una segnalazione che ha a che fare con una MPF è quasi sempre accolta con preoccupazione, talvolta con fastidio o rabbia.  Questa emozione è, soprattutto, presente quando si ha notizia di maltrattamenti o condizioni inaccettabili che riguardano i soggetti più deboli: minori o donne.

Normalmente, i membri delle MPF si rivolgono raramente ai servizi per segnalare le loro condizioni di difficoltà. Questo vale soprattutto per il primo contatto.

Restii a riconoscersi come sistemi ed individui disfunzionali, molto poco interessati a entrare in circuiti di formazione e di aggiornamento che potrebbero aumentare i loro strumenti ed abilità per cercare un’occupazione e quindi migliorare le loro condizioni economiche, sono invece molto competenti nelle richieste più varie riguardo sostegni economici e materiali

Secondo Gilbert Pregno (2016): «Non sembrano chiedere nulla che possa migliorare stabilmente le loro situazioni; la sensazione, invece, è che chiedano tutto».

Uno degli aspetti, più volte citati in questo capitolo, è quella che ha a che fare con l’invio non spontaneo ai servizi competenti: si presentano (o vengono contattati) senza avere una attitudine alla richiesta di aiuto.

In questo senso, sembra utile ricordare la riflessione che Robert Neuburger (1984) propone sulla forma della domanda e sulle differenze tra la richiesta di intervento in psicoanalisi ed in terapia familiare. Neuburger ricorda che alla base di una domanda di terapia individuale esiste una “triade” di elementi che così definisce:

1 –          la presenza di un sintomo;

2 –          la presenza di una sofferenza legata al sintomo;

3 –          la presenza di una richiesta di aiuto (allegazione, nel testo originario).

In moltissime situazioni, il richiedente è “portatore” della sofferenza, della richiesta di aiuto, ma attribuisce la causa della sofferenza al sintomo di cui è portatore un altro membro del suo sistema di riferimento. Un esempio classico è quello della madre che chiede che venga trattato il figlio tossicodipendente o la figlia anoressica. In questo senso la triade si “disperde” e rende indispensabile un intervento sul sistema allargato che comprenda chi chiede e chi è considerato sintomatico, mentre se è lo stesso soggetto che presenta tutti e tre gli elementi della triade, si pu[MC1] ò pensare ad un intervento individuale.

Nel caso delle MPF[2] ciò che accade più di frequente è che il soggetto che avanza una richiesta non è portatore del sintomo e nemmeno di comportamenti propri che possano produrre una sofferenza specifica. Tale è il caso che si crea, ad esempio, quando il caso viene segnalato dal Tribunale o dalla Forza Pubblica o dall’Istituzione Scolastica. La situazione così determinata crea una grandissima difficoltà che si traduce, ad esempio, in una mancanza a volte esasperata di interesse per l’intervento terapeutico o, anche, di ostilità all’intervento stesso da parte dei soggetti “interessati”.

Molti altri autori hanno insistito sulle particolarità e sulle difficoltà nell’avere a che fare con sistemi umani, con individui, con genitori, con membri di MPF che mostrano un profondo disinteresse, se non un’ostilità aperta, ad offerte (ma anche ad imposizioni di tipo giudiziario) di intervento che potrebbero migliorare strutturalmente le loro condizioni.

Secondo Coletti (2001), con queste premesse si può creare un altro grave problema, che sta nell’oscillazione tra un carattere dell’intervento puramente assistenziale-pietistico ed un altro che si può definire sadico-collusivo. Del primo fanno parte le proposte tipicamente sostitutive, come quelle rappresentate dall’elargizione di sussidi economici di diverso genere, di facilitazioni abitative, lavorative, di asili nido, di momenti organizzati di socializzazione, di offerte di interventi di aiuto domestico; del secondo fanno parte gli interventi “punitivi” come quelli dell’allontanamento dei bambini ed adolescenti in pericolo di maltrattamento e tutti gli interventi coatti con interessamento della Magistratura.

In queste famiglie «costrette a collaborare» si crea rapidamente una competenza crescente nel rivolgersi a servizi differenti.

È straordinario come persone sicuramente prive di una solida formazione di base e avulse dalle fonti di informazione abituali, riescano a cogliere la specificità delle competenze delle differenti agenzie di welfare, schivando le offerte che comporterebbero impegni considerati inutili e, invece, avanzando richieste specifiche nei contesti «corretti».

G. Pregno (2016) afferma di avere discusso di un caso in cui le agenzie in qualche modo coinvolte ed attive erano arrivate allo straordinario numero di 25.

Più frequente è imbattersi in MPFs che si rivolgono ad un numero di agenzie di welfare che variano verso la decina.

Servizi Sociali, Servizi Sociali Specializzati, Centri di Salute Mentale, Agenzie caritatevoli, Agenzie di Quartiere sono quelle più ricorrenti.

Ad ognuna di esse viene richiesto qualcosa, a tutte vengono opposte resistenze di vario genere alle proposte diverse da quelle avanzate dalla MPF.

Questo scenario include le richieste più varie e, abitualmente, un certo atteggiamento basato sulla pretesa di avere riconosciuto un diritto.

E MPF non fanno affatto riferimento all’essersi rivolte altrove (altra agenzia) per chiedere lo stesso aiuto economico o di altro genere. Così, le agenzie ed i professionali che si impegnano negli interventi si trovano a «scoprire» che altre organizzazioni, altri colleghi sono attivi nella gestione di aspetti talvolta parcellari, residuali.

Uno dei «mantra» più ripetuti nell’intervento psicosociale è quello del coordinamento». Coordinare l’intervento ha (o, avrebbe) i seguenti vantaggi:

  1. Risparmiare risorse;
  2. Non duplicare azioni;
  3. Armonizzare le strategie.

Dal momento che non esiste ancora una «scienza dell’integrazione», con parametri esatti, indicatori, protocolli universalmente applicabili e che i protocolli e le linee guida vigenti variano enormemente da situazione a situazione, l’integrazione è un movimento lasciato alla responsabilità dei professionali, dei coordinatori, dei manager ed interpretato in forme differenti, caso per caso.

Un esempio semplice ed immediato può essere rappresentato dalle forme differenti e difficilmente integrabili con cui ciascuno degli attori prende nota delle caratteristiche di un dato caso e appunta le diagnosi, gli interventi ed i risultati. Oltre ai formulari, è quasi sempre differente il linguaggio, la terminologia che si usa per definire le situazioni in carico.

A prescindere dagli sforzi immani che talvolta vengono messi in campo, mettere in rete 10 o 20 agenzie di differenti dimensioni, diversità di mission e di competenze, differenze di disponibilità (orari, sede, norme di presa in carico), è veramente un compito immane e quasi impossibile.

Chi ha avuto l’esperienza di partecipare ad incontri e riunioni sa bene il rischio che prevalgano posizioni difensive[3] e /o accusatorie[4] che rendono queste occasioni penose, frustranti e poco efficaci.

Le caratteristiche della MPF accentuano queste difficoltà, muovendosi disinvoltamente tra le agenzie e proponendo la loro disfunzionalità caotica come driver per il rapporto con i centri e i professionali.

Sembra, cioè, che il caos organizzativo della MPF abbia il potere di riflettersi sui centri e sui professionali che l’incontrano, rendendo enormemente difficile raggiungere lo stesso obiettivo che si vorrebbe per la MPF: organizzarsi in maniera razionale, non caotica, ordinata.

  • Appunti per gli interventi

Il lavoro con le MPF ha, innanzitutto, a che fare con il setting.

I terapeuti sistemici hanno appreso che poter contare su certe “regole della casa” (le norme che sono collegabili al contesto terapeutico), si acquisiscono certi vantaggi. Ad esempio, fissare gli appuntamenti, stabilire chi è più opportuno che partecipi, stabilire una durata prefissata e conosciuta degli incontri, essere in grado di “condurre” la conversazione (evitando, per esempio, che qualcuno parli troppo a lungo) etc., sono tutte azioni che facilitano il terapeuta nel poter condurre i colloqui. Chiaramente, non tutto risulta prevedibile; ed è plausibile che l’intervento nel suo complesso non vada sempre nella direzione attesa. È ovvio che si sta facendo riferimento all’intervento terapeutico ed alle sue regole; non a ciò che accade nelle famiglie e nelle vite degli individui, che sono soggette a tanti di quei fattori da rendere improponibile l’idea di condizioni di prevedibilità rassicuranti.

Con le MPFs, escludendo di poter contare sull’accettazione delle norme di setting abituali (quelle già indicate in precedenza) il professionale deve fare a meno della sicurezza che viene rappresentata dal proporre alcune norme e dal contrattare le stesse con i suoi pazienti.

Deve abituarsi a fissare incontri ed a scoprire che non verrà nessuno, oppure che non parteciperanno tutti quelli che, secondo il professionale, sarebbe utile che partecipassero.

Con infinita pazienza, dovrebbe riprendere contatto e fissare di nuovo un altro incontro.

Anche la durata degli incontri non è certa.

Così come il luogo in cui si svolgono i colloqui; molto spesso, è utile e vantaggioso effettuare brevi colloqui nel corridoio, magari in piedi.

Un setting – non setting, insomma.

Un secondo punto che riguarda gli interventi, ha a che fare con le caratteristiche di scarsa o nulla collaborazione tra la famiglia e i professionali ed i centri.

Dato per scontato che prendere questo aspetto come offensivo, reagire con rabbia, colpevolizzare sono (tutti) interventi inutili o che possono addirittura peggiorare la situazione, è molto importante tentare di intervenire su questo aspetto; innanzitutto, non avendo timore nel definirlo, nel metterlo in luce, nel non ignorarlo

Gilbert Pregno (2016) insiste sulla possibilità di lavoro sulla di mancanza di collaborazione basata su una forma creativa ed aperta, proponendo una serie di interventi inusuali che tentino di approcciare la situazione sfavorevole in un modo meno perdente.

Secondo l’autore, è necessario “usare un linguaggio chiaro, senza eccessi di interpretazione, tattiche e strategie. E’ possibile ricorrere ad una forma diretta di umore, senza riguardi ma senza irriverenze».

Ad esempio:

“Nella mia esperienza ho constatato che se una famiglia collabora, la durata del mio intervento si accorcia».

Sempre secondo lo stesso autore, è opportuno evocare apertamente i limiti del professionale e proporre alla famiglia una sorta di collaborazione:

«Non sono molto efficace nel mio lavoro ma vorrei migliorarmi: che cosa pensate si dovrebbe fare?»

Oppure, «sostenere» le resistenze che la MPF mostra nel lavoro:

“Cerchiamo di accorciare i tempi del mio intervento in modo che vi liberiate di me.»

O, anche:

«Immagino che sareste contenti se il mio intervento finisse qui, ma per ora non è possibile»

 Mi rendo conto che il mio lavoro vi infastidisce. Avete delle idee su come questi incontri potrebbero essere più piacevoli? « 

“Non sono molto efficace nel mio lavoro, ma vorrei migliorarmi: che cosa pensate si dovrebbe fare?»

“Cerchiamo di accorciare i tempi del mio intervento in modo che vi liberiate di me»

Anche la ridefinizione in positivo può essere uno strumento utile:

«Sono interessato di osservare come educate i vostri bambini. Siete originali, e fate delle cose differenti da quello che si usa fare …»

 «Vi posso chiedere di darmi un consiglio per il mio lavoro futuro con delle famiglie? In modo particolare se ci sono state delle cose che non vi sono piaciute o altre che direste questo è stato veramente utile? Queste cose mi interessano perché in tale modo altre famiglie possano approfittarne»

Anche la a volte disperante mancanza di riferimenti temporali è ridefinita così da Pregno: «Orientati sul hic et nunc, gestiscono il tempo con una grande flessibilità».

Accettare, quindi, la grandissima parte delle sfide al setting ed utilizzarle per un percorso plausibile.

Questa scelta vale, ovviamente, anche per ciò che riguarda l’influenza dell’invio e dell’intervento coattivo sulle risorse professionali e emozionali dell’operatore.

Come verrà affermato successivamente, lavorare con soggetti che non riconoscono né la propria situazione come problematica, né la competenza di chi hanno di fronte, né l’obbligo di cambiare alcuni comportamenti a rischio (soprattutto per quanto riguarda i minori) è enormemente frustrante.

Ma è possibile utilizzare anche questo scenario in forma terapeutica. Con le ovvie e non infrequenti eccezioni, è possibile ridefinire il rapporto con la MPF come «obbligatorio per tutti; pertanto, conviene che ognuno si adegui». Questo tipo di intervento potrebbe permettere di abbassare la sensazione di «essere controllati, giudicati, talvolta puniti», di avere di fronte professionali che «obbligano». Inoltre, permetterebbe di raggiungere una sorta di «alleanza» tra i soggetti interagenti.

Infine il già menzionato sentimento di giudizio e di penalizzazione.

La MPF (così come la stragrande maggioranza dei sistemi umani) reagisce male alla sensazione di essere giudicata: uno degli aspetti più ricorrenti e ricorsivi del lavoro con questo tipo di famiglie è centrato su atteggiamenti di difesa, distacco, aggressività centrati sulla sensazione di essere percepiti come “sbagliati” e di attendersi una punizione per questo.

Se i professionali riescono a ridurre questa sensazione reattiva, commentandola direttamente ed apertamente, l’atmosfera degli incontri può essere molto migliorata. “io/noi non sono/siamo qui per giudicarvi; soprattutto non giudichiamo i vostri sentimenti e le vostre intenzioni. Sappiamo che questi sono positivi. Vorremmo sostenervi nel cercare di “migliorare la situazione”.

  • Le emozioni

Molti anni fa, quando lavoravo nella formazione e la supervisione dei Servizi Sociali di Ciutat Vella a Barcelona, una Assistente Sociale mi raccontò una sua esperienza recente.

Seguiva un curioso sistema “familiare” composto da due donne adulte, entrambe mamme, che avevano trovato utile e comodo condividere una lurida baracca per fare stare assieme i due figli maschi dell’una (5 e 3 anni) e i tre figli dell’altra (una bambina di 9 anni e due gemelli di quattro). I bambini erano frutto di relazioni casuali delle due donne, che vivevano di espedienti vari, tra i quali la prostituzione. Quindi, di uomini e di padri nemmeno l’ombra. Neppure le famiglie di origine erano presenti: una era restata in Andalucia, l’altra era composta dal padre di una delle donne (la madre era deceduta) e dal fratello; entrambi non volevano avere niente a che fare con la loro congiunta. Tra le due donne non vi era altro che un rapporto di amicizia e di condivisione della “casa”.

Le segnalazioni ai Servizi Sociali di zona erano state avanzate a causa di una malattia esantematica della bambina più grandicella e del suo ricovero ospedaliero e, successivamente, a seguito di una segnalazione delle Forze di Polizia Locale che avevano fermato ed identificato una delle due donne adulte mentre si era appartata con un cliente occasionale.

Successivi interventi e visite a domicilio avevano fatto scoprire che la bambina aveva numerosi tic e il bambino di due anni sembrava incapace di parlare, se non a gesti.

Già in due occasioni precedenti, gli operatori dei Servizi Sociali avevano aperto una pratica per il ritiro della potestà materna per manifesta impossibilità a funzionare da genitori e per ipotizzare una rapida assegnazione di tutti e cinque i bambini ad Istituti e/o a famiglie affidatarie. A questa ipotesi, le due donne avevano opposto una vivace resistenza ed una contrarietà assoluta, sostenendo che “i bambini stavano bene insieme” e che loro non facevano mancare loro proprio nulla.

Tuttavia, la pratica giudiziaria era ancora in coro e l’Assistente Sociale si era recata presso la baracca per capire se qualcosa era cambiato.

L’operatrice, durante uno degli incontri di discussione dei casi e di supervisione, racconta:

Ho aperto la porta della baracca, i bambini erano per terra, un pavimento di terra. Non c’era nessun adulto con loro. La bambina più grande stava armeggiando con una pentola ed un fornello, probabilmente per preparare qualcosa da mangiare. Ma non ho visto nulla, se non qualche foglia di verdura, del pane secco e qualche pugno di riso. Gli altri stavano gettati a terra, giocando con pezzi di legno e di ferro. Uno starnutiva in continuazione e dal suo naso colava una grande quantità di muco. Le condizioni igieniche del locale erano pessime; al suolo c’erano dei pagliericci luridi. Ad un certo punto, ho visto in un angolo uno dei gemelli che giova con un grosso topo e l’animale gli stava mordicchiando un dito. Mi sono sentita male, sono uscita di corsa ed ho vomitato per la strada,”

A questo punto, un silenzio pesante e drammatico ha attraversato il gruppo. Un silenzio che è durato veramente tanto. Improvvisamente, interrotto da un intervento “urlato” di un’operatrice che ha detto:

Adesso usciamo tutti da qui, chiamiamo la Polizia ed andiamo a prendere questi bambini!! Ora, subito!!”

È iniziata una discussione molto animata in cui tutti hanno espresso il loro dolore ed il loro disgusto. Molti hanno reagito con violenza verbale nei confronti delle due “madri”. Qualcuno propose di interrompere la sessione di supervisione e di andare a denunciare alla polizia la situazione. Sarebbero stati Polizia e Magistratura ad interrompere quella situazione e a mettere al sicuro i cinque bambini. Altri espressero critiche alla collega, per non avere deciso all’istante di chiamare la forza pubblica.

L’Assistente Sociale ascoltò molto tesa. Poi scoppiò in un pianto dirotto; tutti gli altri tentarono di consolarla ed aumentò il numero di coloro che pensavano giusto denunciare le due donne alla Magistratura. La donna, tra i singhiozzi, affermò che quella stessa sera fu sul punto di chiedere di cambiare lavoro (voleva, disse, lavorare nel campo delle adozioni). Il giorno dopo (una settimana prima della sessione di supervisione) aveva avuto un colloquio con il suo responsabile d’area che le chiese di attendere qualche tempo per prendere la sua decisione definitiva. Molti colleghi espressero aspre critiche al responsabile in quanto, secondo loro, non aveva difeso abbastanza la donna e si era limitato a prendere tempo. Per un tempo non cortissimo, l‘atmosfera del gruppo cambiò: si discuteva della scarsa “protezione” per un lavoro come quello, dell’insensibilità dei capi e dei politici, delle ingiustizie patite durante il lavoro. Passata anche questa fase, l’Assistente Sociale disse che sentiva il bisogno di fare qualcosa di concreto. Le venne consigliato (dal supervisore e da tutto il gruppo) di andare di nuovo a parlare con il suo responsabile; questa volta, a proposito del caso concreto e di proporre a lui di andare assieme a sporgere denuncia.

Una sessione di supervisione che ebbe luogo dopo due mesi da questa, permise di raccogliere il feedback sul caso: l’Assistente Sociale aveva parlato con il suo responsabile, che fu d’accordo nell’andare assieme a sporgere la denuncia. La Magistratura dei Minori aveva disposto all’inizio un’ulteriore ispezione nella baracca. La Polizia, questa volta, aveva trovato le due donne; che reagirono molto violentemente all’arrivo delle Forze dell’Ordine. Secondo loro, non c’era nulla che non andava: i bambini stavano bene, erano nutriti e non si lamentavano. Alle urla delle donne erano accorsi i vicini i quali confermarono che i bambini venivano spesso lasciati a loro stessi mentre le donne andavano ad esercitare la prostituzione. A questo punto, i poliziotti avevano prelevato i minori e li avevano portati in un Istituto.  Avevano proceduto a denunciare le madri.

Il giudice aveva rapidamente emesso un provvedimento di ritiro della potestà genitoriale e le due donne erano state arrestate.

L’Assistente Sociale raccontò l’accaduto molto tesa, ma in maniera meno drammatica della prima volta.

Questo esempio (estremo, ma non troppo) mostra come lavorare con questi clienti sia assai rischioso per il sistema emozionale e per la dimensione umana dell’operatore professionale.

A differenza di altri interventi, quello sulle MPF è segnato da condizioni estremamente penalizzanti e drammatiche che mettono a dura prova l’operatore professionale.

Sono sei gli aspetti che aggrediscono le emozioni dell’operatore:

  1. La già citata gravità (talvolta estrema. Come nel caso indicato) delle situazioni. Nonostante sia possibile trovare sistemi familiari con le caratteristiche tipiche delle MPF anche in casi che appartengono a ceti sociali medi od anche alti (Coletti, 2001), la stragrande maggioranza dei casi appartiene a ceti bassi o molto bassi. Povertà, mancanza di risorse economiche, mancanza di condizioni lavorative accettabili, condizioni alloggiative precarie (se non pessime), mancanza di formazione e di conoscenze aggravano pesantemente i meccanismi descritti in precedenza. Gli interventi sono resi molto difficili anche da questi aspetti. Quanto più la situazione è grave, tanto più l’operatore è in difficoltà.
  2. L’attitudine alla delega ed alle richieste continue, assillanti, di ogni tipo. Solitamente, nell’ambito delle questioni economiche diretti od indiretti. Possono essere le bollette da pagare, l’affitto da regolare, i pannolini per i bambini piccoli, passaggi in automobile o biglietti per i trasporti pubblici. La competenza di queste famiglie nel trattare con i Servizi e gli operatori è tale che, spesso, viene richiesto lo stesso sostegno ad organizzazioni differenti. Ed è abbastanza frequente che l’atteggiamento dei membri del sistema familiare sia di rivendicazione, di diritto ad ottenere quello che chiedono. Se pensiamo che, allo stesso tempo, l’operatore è di fronte ad un muro per quanto riguarda offerte che comporterebbero sforzi e modificazioni comportamentali da parte dei membri del sistema (per un lavoro, per accompagnare a scuola i bambini, per mantenere sufficientemente pulito il domicilio, per ricordare gli appuntamenti ed arrivare “abbastanza” in tempo, ad esempio), è abbastanza logico che l’operatore pensi che “questi qui” vogliono avere solo i vantaggi, ma non si impegnano per nulla per cambiare. L’emozione più frequente, in questo caso, è la rabbia.
  3. Il punto precedente ci riporta alle attese infinite di cambiamenti abbastanza consistenti. È molto difficile sapersi adeguare alla esasperante lentezza delle modificazioni, anche quando minuscole, dei comportamenti e delle relazioni. Inoltre, quando questi cambiamenti hanno luogo, non risultano stabili, non hanno coerenza, svaniscono presto. Il senso più frequente è di un’immensa frustrazione. L’attesa (generosa) di un cambiamento decisivo, a fronte dell’ennesima richiesta di pannolini, può essere troppo.
  4. Le condizioni relazionali, organizzative, emozionali, sociali della MPF hanno un forte carattere di cronicità. L’estrema gravità a cui si è fatto cenno, si perpetua per tempi lunghi. Quelli che possono essere considerati dall’esterno “errori” (non curare abbastanza i bambini, non ricorrere all’alcool ed alle sostanze, non ricorrere ad atti violenti), si perpetuano talvolta all’infinito nelle MPF. La cronicità delle situazioni, le cosiddette “ricadute” creano condizioni molto frustranti per chi ci lavora.
  5. La generosità (talvolta, l’inesperienza) degli operatori li pone frequentemente di fronte al vissuto del fallimento. Un fallimento su un determinato intervento, oppure un senso di fallimento generale, che ingloba sia l’intervento su un caso specifico, sia l’intero lavoro svolto. Si può dubitare dell’utilità degli sforzi propri, della struttura e dell’intero sistema; o anche dell’essere adeguati ad un lavoro del genere. Nelle conclusioni di questo capitolo, si farà cenno al problema del burn out.

Cosa fare di fronte a queste vere e proprie tempeste emozionali?

Gli strumenti per mitigare un senso a volte drammatico di inadeguatezza, di rabbia non sono miracolosi. E si basano tutti su un lavoro su di sé e con lo staff.

Innanzitutto, il professionale deve avere strumenti adeguati per conoscere sé stesso e le proprie reazioni a stimoli stressogeni come quelli che sono stati descritti. Infatti, solo una paziente attività centrata sulle reazioni emozionali permette di cercare e trovare la lucidità indispensabile per interventi che non siano solo reattivi. Riconoscere le proprie fragilità, i propri punti critici soggettivi in un lavoro come quello con le MPF è essenziale.

Oltre allo sforzo individuale, sono indispensabili altri strumenti.

La supervisione individuale permette un lavoro profondo sui significati delle reazioni e dei vissuti di chi lavora con le MPF. L’ideale sarebbe di potersi permettere una supervisione esterna. Ma è anche possibile ricorrere a risorse interne allo staff: un collega esperto e competente può svolgere questo ruolo.

La supervisione di gruppo coglie un altro livello: le dinamiche collettive che si sviluppano attorno alle emozioni provate e vissute nel lavoro con le MPF. È del tutto evidente che la dimensione gruppo ha un livello autoreferenziale, nel quale i casi seguiti possono essere lo spunto per sviluppare o esaltare aspetti di dinamica gruppale indipendenti dal caso in discussione. In questo caso, è opportuno che il supervisore sia esterno e, se possibile, scelto con il consenso (o, almeno, il non dissenso) di tutti i membri dello staff.

La supervisione di gruppo è utile anche per identificare, discutere e ricalibrare i vissuti emozionali relativi al funzionamento vero e proprio del sistema staff in situazioni come cambiamenti istituzionali, di gerarchia, di modificazioni nei sistemi soprastanti.

  • Conclusioni

Come risulta chiaro, l’intervento in casi come quelli delle MPF è estremamente difficile, lungo e pieno di ostacoli

Gli aspetti più rilevanti che si sono voluti mettere in luce sono:

  1. L’approccio ad organizzazioni ad altissima disfunzionalità, molto chiuse, poco cooperanti è spesso eseguito attraverso un invio forzato. Questo aspetto rendo difficile un intervento (come quello sistemico) che, di fatto, si basa sull’incontro basato sulla collaborazione e sulla disponibilità;
  2. Un’esigenza più volte e ripetutamente messa in luce è quella dell’imprescindibilità dalla massima integrazione tra i servizi che hanno competenze o che sono chiamati ad avere un ruolo. Questo aspetto è enormemente importante. Ed è altrettanto difficile da ottenere. Centri e strutture con mission, organizzazione, dimensione, leadership differenti non sono, di per sé facili da coordinare e pronti a cooperare. I passi indietro sono più frequenti di quelli in avanti.
  3. Il lavoro con le MPF fa scoprire all’operatore sistemico universi nuovi, lo sfida ad accettare modificazioni di setting e di tecniche non comuni, che hanno bisogno di formazione ed aggiornamento.
  4. Il lavoro con le MPF, per sua stessa natura, mette in gioco, in maniera estremamente rilevante e drammatica il sistema emozionale di chi ci opera. 

Oltre a chiedere fermamente investimenti nel campo della formazione e della supervisione sarebbe necessario mettere in campo studi e ricerche che abbiano come oggetto l’operatore e lo staff sottoposti a questo tipo di eventi coinvolgenti e stressanti.

In uno studio effettuato su un campione significativo di professionali dei Centri di Trattamento italiani  (SerT, SerD, Dipartimenti delle Dipendenze, centri di trattamento residenziale o semi residenziale – TTCC) delle addiction in Italia (Coletti M, Gaudio F. 2008), si è tentato proprio di stimare lo stress lavorativo e il rischio burn out per i professionali che vi lavorano con diverse competenze.

Lo studio ha fornito alcuni spunti interessanti, intanto, si è potuto stimare in 15-20% la quota di operatori a rischio di burn-out.

Secondo la rilevazione, sono considerati fattori di rischio per il disagio lavorativo ed il burn out:

  • Fattori di genere (soprattutto per le donne coniugate)
  • tipo di servizio (per i centri di trattamento pubblico delle addiction);
  • eccesso di lavoro;
  • “evanescenza” di ruolo[5];
  • gestione debole delle risorse umane (formazione, partecipazione, …[6])

Appaiono meno rilevanti ai fini dei rischi di disagio:

  • le condizioni “materiali di lavoro” (locali non adeguati)
  • il sistema di relazioni (nello staff, con l’utenza)

Dalla ricerca: l’autopercezione delle condizioni critiche segnala come importanti:

  • Utenza: senso di distacco nella relazione di aiuto; scarsa percezione dei risultati
  • Staff: integrazione professionale; collegialità operativa
  • Organizzazione: gestione strategica; partecipazione; politiche del personale
  • Vissuto professionale: sovraccarico qualitativo (difficoltà, eterogeneità dei compiti) e quantitativo (eccesso di lavoro)

I ricercatori concludono segnalando l’importanza essenziale di alcune priorità strategiche, che possono ridurre i rischi di burn out e di disagio e stress lavorativi

  • La partecipazione di tutti gli operatori alle scelte strategiche del servizio
  • La chiarezza delle procedure adottate e dei compiti professionali individuali
  • L’investimento in consulenza, aggiornamento e formazione

Queste scelte, queste priorità sono plausibili, non eccessivamente onerose ed alla portata delle policies di settore.

Si è voluto citare questo studio in quanto sia l’analisi dei problemi, sia le conclusioni a cui giunge la ricerca hanno grandissime analogie con l’intervento con le MPF.

I problemi multipli che le MPF creano ai servizi ed ai professionali non sono solo affrontabili con l’adozione di tecniche innovative, ma con una profonda e continua revisione dei setting di intervento, con un’attenzione particolare alla persona del professionale, con scelte adeguate di sistema generale.

Sembra necessario, soprattutto, sottolineare l’importanza dell’intervento di supervisione e di discussione dei casi, visto come un’opzione per favorire sia una lettura integrata e diversa, sia un sostegno decisivo ai professionali coinvolti.

L’ottica sistemica aiuta nel comprendere meglio i meccanismi, le condizioni, i percorsi. Ma, anche, nel mettere in campo interventi a livello di complessità maggiore (gli individui, il sistema, i sistemi), sia a comprendere i meccanismi

7.  Bibliografia

Aponte, J.H. (1976): Under-organization in the Poor Family. In: Family Therapy: Theory and Practice (Guerin P.J. comp.). New York. Gardner. ISBN-10: 0470150890 

Aponte, J.H. (1981) Structural family Therapy. In: Handbook of Family Therapy (Gurman A.S. and Kinskern, P. comp.) New York: Brunner-Mazel. ISBN-10: 1138917621 

 Cancrini L. (1994): W Palermo viva. Storia di un progetto per la prevenzione delle tossicodipendenze. Roma: Carocci. ISBN: 9788843001316

Coletti M. (2001): Famiglie multiproblematiche, servizi sociali e approccio sistemico. In: Lavorare con la famiglia. Manuale ad uso degli operatori dei servizi sociali (O. Cellentani, edited by). Milano: Franco Angeli.   ISBN: 9788846407467 

Coletti M., Gaudio F. (2008) • Lavorare con i tossicodipendenti. Complessità. Sfide, rimozione sociale. Milano:  Franco Angeli. ISBN: 9788856803860

Coletti, M et Linares . J.L. (1997): La intervención sistémica en los servicios sociales ante la familia multiproblemática : la experiencia de Ciutat Vella. Barcelona: Paidos Iberica. ISBN: 9788449304385

Donati P. (2007): Famiglie e bisogni: la frontiera della buona prassi, Milano: Franco Angeli. ISBN: 9788846485533 

Malagoli Togliatti M., Rocchetta Tofani L. (2002), Famiglie multiproblematiche, Roma: Carocci Editore. ISBN: 9788843057009.

McGoldrick, M Carter, B., Garcia-Preto, N. (2010): Family Life Cycle: Individual, Family, and Social Perspectives (4th Ed.)  Boston: Allyn and Bacon ISBN-13: 978-0205747962

Minuchin, P., Colapinto, J., & Minuchin, S. (1967). Working with Families of the Poor. (2nd Ed.). New York: Guildford Press. ISBN-13: 978-1572304062

Minuchin, S, Montalvo B., Guerney Jr. B.J., Rosman, B.L., Schumer, F. (1967): Families of the Slums. An exploration of their Strucure and Treatment, New York: Basic Books. ISBN-13: 978-0465023301

Neuburger M., Neuburger R. (1984) L’autre demande. Paris : ESF Ed. ISBN 2-7101-0504-7

Pregno G. (1998): Les enfants, orphelins de droits, Editons Le Phare, Luxembourg – ISBN 2-87964-036-2

Pregno G.:  Papa n’habite plus chez nous, il vit à la prison…, Thérapie Familiale 2012/2 (Vol. 33) – DOI: 10.3917/tf.122.0171

Pregno G. (2011): Il lavoro con le famiglie che non chiedono niente: la non collaborazione come soluzione Minorigiustizia 2011 Fascicolo 1 P. 27-35. Milano: Franco Angeli Editore DOI: 10.3280/MG2011-001003 

Pregno G. (2016): Le famiglie multiproblematiche … o quando le famiglie non chiedono niente : come soppravivere . Workshop agli allievi di IEFCoS. Roma

Voiland A. (1962), Family Casework Diagnosis, New York, Columbia University Press

Von Foerster H.  (1982): Observing Systems. Intersystems Publications; 2nd edition. ISBN-13: 978-0914105190


[1] Si può qui fare riferimento ai termini diversi che vengono usati nel campo delle droghe: addiction, dependence, use, abuse, misuse, consumer, path consumer, etc.

[2] la segnalazione e, quindi, la richiesta di un intervento non avanzata da soggetti direttamente coinvolti nel problema, ma da Istituzioni come la scuola, l’autorità giudiziaria od, anche, da vicini ed altri soggetti non è solo limitata alle FMP. La situazione descritta si riferisce a tutte quegli interventi coattivi che sono frequenti in situazioni psichiatriche, nelle tossicodipendenze e, a volte, nei disturbi alimentari gravi

[3] “non è nostra competenza …”

[4] “doveva essere compito di …”

[5] Può senz’altro essere un fenomeno molto “italiano”, ma accade spesso che professionali con un titolo come psicologo vengano assunti per altri ruoli come educatore o “operatore di TC”.

[6] Questo punto riguarda tutti i centri interessati dallo studio, nei quali si percepisce una netta mancanza di interesse per la cura delle risorse umane.


 [MC1]