Maria Laura Vittori ( a cura di), PER UNA CLINICA DELLA GENTILEZZA. STORIE DI PSICOTRAPIA E DI SUPERVISIONE, Franco Angeli, Milano , 2019
Ho letto con curiosità e interesse il libro curato di Laura Vittori che ho già recensito alla sua pubblicazione e che ora condivido anche in questo spazio pensato per il nostro sito perché il concetto del recupero della gentilezza nella vita comunitaria e nella clinica è un tema che ha rappresentato anche per me fonte di interesse e di attenzione ormai da tempo e che ha registrato convergenze ampie in altri paradigmi terapeutici e in altri ambiti disciplinari.
Questo libro è un piccolo scrigno che richiede di essere letto con cura, in un ascolto curioso e gentile e con attenzione non solo al contenuto, ma anche alla forma e allo stile narrativo:“ Ci sono parole che si riparano all’ombra, e che all’ombra prosperano perché sono delicate e soffrono le condizioni climatiche estreme: esse non possono essere né urlate , né scritte in neretto in titoli di spalla …ma regolano il tepore delle umane relazioni temperando gli eccessi. Sono il dialogo, la confidenza, l’intimità e la gentilezza.”
Sono queste infatti le parole, scelte con cura perchè appunto non sono solo forma, ma si fanno sostanza e messaggi significanti e pregnanti che vogliono parlare alla mente e al cuore. Si sono sedimentate, nutrendosi di costrutti teorici e di narrazioni e hanno ispirato la stesura di questo libro e la scrittura dei casi clinici riportati nella seconda parte del testo. E’ infatti un libro che nasce nel luogo/ stanza che ha accolto un gruppo di terapeuti in supervisione e ha come presupposto una filosofia e una metodologia di clinica e, isomorficamente, un modo di fare supervisione. Nella prima parte dedicata agli aspetti teorici Vittori rintraccia in un rapido escursus teorico autori e modelli che hanno contribuito a nutrire e delineare quella “clinica della gentilezza” che si riflette nel suo fare attuale sia nella clinica e sia nella formazione . Anche la teoria si fa lieve e si incammina in modo garbato e leggero attraverso la rivisitazione di quelle tre parole chiave già ricordate : confidenza, intimità per arrivare alla gentilezza scelta per definire, con la sua quieta rivoluzione, l’approdo dell’approccio clinico proposto nel testo.
Per ognuna di queste parole Vittori tratteggia brevemente gli ancoraggi teorici più consolidati e gli sviluppi più recenti. Come per la confidenza analizzata come sentimento da Panikkar R. (2013) che sostiene che i nostri sensi hanno bisogno di un’altra persona anche solo per poter essere perché non esiste logos senza dia-lagos. ” Il tempo dell’ascolto, nella confidenza, è quindi un tempo lento… Cosi , nella confidenza il raccontarsi è un espandersi ; più che un semplice dirsi, è uno svolgersi.” (Vittori, pag.18).
Si rintracciano poi i contributi di Eugenio Borgna ( 2015) con il richiamare l’importanza delle emozioni e della loro centralità nella costruzione della relazione terapeutica, e… non solo! In questo senso diventano centrali: la pazienza, il calore umano, la comprensione, la capacità di creare un clima di fiducia e di accoglienza del cuore e l’assoluto rispetto per la libertà e la dignità dell’altro. Un tempo lento che presuppone anche la capacità di mettere in attesa le funzioni cognitive più ingombranti che possono portare ad una diagnostica “oggettivante” che può annichilire la confidenza e un ascolto gentile che ridà dignità e spessore umano al Sé ferito e dolorante.
Ma l’aprirsi alla confidenza e lo svelarsi trova supporto anche nella teoria interpersonale della Benjamin (1999) in cui il comportamento evoluto e maturo si colloca tra “la differenziazione e l’amore”, che caratterizzano una relazione genitoriale capace di promuovere una crescita sana. Quella parental affermation che si “ricapitola “ e si ripropone in una relazione terapeutica capace di affermare e confermare ( heartily affirmation) l’identità e il dire di chi invece arriva fragile e ferito nei suoi attaccamenti primari e nei suoi successivi inciampi .
Questo sentire gli altri viene più che altrove accentuato nell’approccio e nella pratica clinica dell’Open Dialogue ( di Seikkula J. e J. Ahnonen) che si sta sperimentando in modo sempre più ampio e diffuso anche nel nostro paese e in particolare in alcuni Dipartimenti di Salute Mentale di Roma.
La filosofia di cura dell’Open Dialogue si basa infatti sul mettersi profondamente in ascolto dell’altro, Vittori sottolinea come “ La mente del terapeuta non è impegnata a fornire nuove significazioni in una ridefinizione, la mente del terapeuta è modulata sul fluire dell’ascolto. Questo aiuta il terapeuta a mettere a riposo le altre funzioni incombenti dell’io che in un terapeuta più “strategico” potrebbero essere in uno stato di allerta, mettendo l’interlocutore stesso , momentaneamente privato della sua occasione terapeutica di “svolgersi nella relazione” in uno stato di difesa.”(pag.18).
La seconda traccia rappresentata dall’intimità ha trovato nuovi straordinari supporti dagli ultimi sviluppi che ci derivano dalle neuroscienze e dalle loro ricerche che danno conferme scientifiche alle teorizzazioni e alle intuizioni del mondo della psicoterapia maturate nell’ esperienza clinica dell’ultimo ventennio E quindi dal contributo di Siegel D.J. ( 2001) o quello più recente di Jullien F. (2014) che si addentra in quei territori dove, direbbe Bateson “ anche gli angeli esitano”.
Intimità dell’invisibile più che del visibile , con la sua sostanza immateriale, sfuggente e insieme così straordinariamente potente ! Territori quindi dell’implicito più che del digitale, che rimandano al linguaggio del corpo e all’empatia che rintracciamo nei contributi di Onnis L. ( 2015, 2017).
E giungiamo infine alla gentilezza e alla sua quieta rivoluzione che rappresenta il costrutto centrale che Laura Vittori propone “ Lo psicoterapeuta gentile è, per quanto detto finora , una figura potente non perchè prevalga il modo confrontativo sulla visione del mondo del paziente o perché strategicamente lo stringa in un angolo da cui possa fare il salto, ma per la configurazione attitudinale che egli propone”. Pertanto “L’etica della psicoterapia si compie in un ordine estetico che bonifica la scabrosità della sofferenza , cercando di rinnovare il patto evolutivo di collaborazione e di gentilezza tra esseri umani”
In questi territori ci viene in aiuto più che mai il linguaggio analogico , metaforico immaginifico e, soprattutto, il linguaggio dell’implicito, quello incarnato che scorre tra curato e curante, nelle posture, negli sguardi nel “mettersi in dialogo” delle emozioni e dei mondi interni . Forme comunicative che aumentano la capacità di recepire i segnali dell’altro in una comunicazione empatica e sintonica che incrementa la possibilità di riflettere sugli stati della mente e di promuovere i processi di mentalizzazione approfonditi da vari autori e in particolare da Fonagy .
In tutte le storie cliniche che compongono la seconda parte del libro non ritroviamo solo una fredda casistica , ma incontriamo storie narrate da terapeuti che si fanno un po’ “ racconti di viaggio” per rifarci alla bella definizione che Cancrini ha usato per narrare la terapia intese come viaggio profondamente vissuto nella condivisione complessa e profonda che connette i viandanti.
In tutte c’è lo spazio per il linguaggio poetico e la dimensione artistica , per le luci e le ombre, per i mille dubbi , le mille incertezze i mille conflitti dentro, fuori e “tra” che hanno trovato scenario e palcoscenico nelle stanze della terapia e nella stanza della supervisione . Soprattutto rintracciamo nella filigrana delle narrazioni quel “fil rouge” dell’attenzione gentile, curiosa e rispettosa , che ha consentito la co- costruzione di una relazione “ sufficientemente buona” (Bowlby)
Quindi un po’ “ storie che curano” come le definisce Hillman, quando il terapeuta riesce a sottrarsi al rischio della oggettivazione dell’altro alla ricerca della poiesis e della “ base poetica della mente” , un esercizio tra l’arte di curare e l’arte di narrare. Nella polifonia delle differenze dei narranti si ritrova un afflato al narrare lieve per farci entrare “ vedere” ed empatizzare con i personaggi che loro hanno incontrato in viaggi a volte complessi attraversati da scoraggiamento , quel “buio della mente” ( Cancrini) e tutti quei moti emotivi del controtransfert che viviamo come terapeuti quando la nostra sedia si fa troppo calda e scomoda !!
Con grande piacere ricordo i nomi di tutte le terapeute che sono state allieve di IEFCoS e che ci regalano dieci piccoli cammei di belle e interessanti storie cliniche: Rita Ara, Margherita Coccoli, Silvia Antonietta Curiale , Stéfanie Davidts, Eloisia Delle Rose, Eleonora Di Marco, Maria Teresa Federico, Cecilia Fusco, Francesca Palmieri, Valentina Pellegrino, Alessia Pizzimenti.
Questo libro ci parla quindi anche dell’utilità di una supervisione come antidoto alla solitudine e al burnout sempre in agguato per il terapeuta soprattutto all’inizio del suo viaggio professionale o, successivamente, al suo sperimentare la solitudine della stanza. Viene quindi in aiuto la feconda possibilità di impostare, in modo isomorfico, il luogo della supervisione come quella feconda “mente collettiva” di cui parla Bateson e come una sorta di “ base sicura” come ci ha insegnato Bowlby.
Luogo, quindi, in cui trovare ristoro e accoglienza empatica e …soprattutto un ascolto gentile che promuova e renda maieuticamente possibile un nuovo germogliare che ridà slancio al terapeuta e alla storia clinica che sta scrivendo insieme al suo paziente .
Paola Mari.