Finestra, tu, misura dell’attesa,

tante volte colmata,

quando una vita con impazienza è tesa

verso una vita amata.

Tu che separi e che attrai,

cangiante come il mare,

d’un tratto specchio che ritrai

il nostro viso con tutto quanto appare;

esempio di libertà insicura,

nell’impatto con la sorte

forma che dai misura

all’esterno troppo forte.

Rainer Maria Rilke

Premessa

Perché alcune parole ci appaiono amabili o detestabili, altre non ci dicono niente, altre ancora sono così pesanti da farci sentire urgente il bisogno di liberarcene?

Da questi interrogativi nasce il progetto di costruire un “piccolo lessico a uso personale”, nel quale censire un certo numero di parole, provando a dire ciò che esse significano, evocano per me. Un lessico a uso personale: un modo per invitare ciascuno a scoprire il proprio, al di là delle nozioni che sono bene comune degli psicoanalisti, cui ognuno di loro ricorre come a una cassetta degli attrezzi.

Io desideravo aprire qualche finestra per me, ed eventualmente per i lettori, facendo mia la prescrizione dei medici di una volta: “Dovrebbe cambiare aria, le farebbe bene”.

(Le Finestre erano 58. Io ne ho scelte  19. In base a cosa, perché quelle e non altre, che criterio ho utilizzato, non lo so. Vale la pena di leggersele tutte, ma la vita è breve…accontentatevi! N.d. Laura)

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LA FINESTRA

La mia poltrona di analista vicino alla finestra: il fogliame di un albero, il canto degli uccelli. La mia scrivania: sempre accostata a una finestra. Contrasto con l’appartamento della mia infanzia: la finestra, davanti alla mia scrivania di scolaro, dava sul muro di un parcheggio in disuso.

Potrei rappresentare le tappe della mia vita come una successione di finestre che si aprono: le uscite con i compagni fuori dal quartiere, lontano dalla famiglia; l’apprendimento delle lingue straniere; l’anno della maturità, i miei primi viaggi fuori dalle frontiere; i miei amori, le letture e le riletture, la mia analisi sul divano, le mie analisi sulla poltrona.

Paradosso: insisto perché le porte, invece, siano ben chiuse. La mia “topica” soggettiva è insieme quella delle finestre aperte e della stanza per sé.

IL CONCETTO

“Il concetto si forma dall’oblio di ciò che differenzia un oggetto da un altro”, diceva Nietzsche. La condizione necessaria alla formazione di un concetto è dunque l’oblio: l’oblio di ciò che è proprio, singolare, differente. Dico un tavolo e dimentico questo tavolo; dico: è un ossessivo, e dimentico colui che mi sta parlando; dico transfert e credo di essermi liberato da questo amore smisurato o da quest’odio senza scampo; dico transfert materno e ignoro a quale madre lei o lui si rivolge.

Si può fare a meno di tutto l’equipaggiamento fornito dai concetti? Cercare, almeno, di distaccarsene, di non sottomettersi ad essi, per aprirsi invece a ciò che è inconcepibile. (o inconcettualizzabile? N.d.L.)

IL CONGRESSO

Da anni ormai non metto più piede in un congresso di psicoanalisti. Davanti a quell’affermazione pubblica, massiccia, di un’identità che si suppone comune – “Noialtri psicoanalisti, esperti giurati dell’Inconscio” – io mi eclisso.

È che percepisco intensamente, fino al malessere, la contraddizione insita nell’unione di queste due parole: congresso, psicoanalisi.

L’analisi: l’esperienza più intima, più insolita, più difficile da trasmettere e perfino da dire, la più reticente a qualsiasi forma di sapere, a qualsiasi discorso compiuto. Un’esperienza che spesso rimane opaca per le persone stesse che vi si sottomettono, l’analista e il paziente.

Un congresso: una riunione di specialisti venuti per comunicare delle informazioni che si vogliono obiettive, controllate, sottomesse al regime della prova.

Un congresso appiattisce, riduce al già noto, mastica tutto quanto c’era di nuovo, di vivo, di soggettivo nelle esperienze comunicate.

Un congresso di psicoanalisti è forse un’istanza collettiva di rimozione?

CI Ò CHE, IN UN PERIODO, MI SI IMPONE

I miei pazienti: i miei maestri. Se ci sono dei progressi in psicoanalisi è innanzitutto grazie a loro. I libri vengono dopo: individuo subito quelli che non sono animati dalla clinica del divano e dai suoi ostacoli. C’è chi pensa a patire dalla propria esperienza, e chi non ha fatto che leggere e rileggere Freud e Lacan; per quanto egli si mostri dotto, è come se mettere alla prova la psicoanalisi non gli facesse né caldo né freddo. Di qui la mia irritazione davanti agli “schermi” che vengono chiamati alla riscossa per illustrare la giustezza dei (pre)concetti dell’analista. Non affrettarsi a tradurre. Non sostituire la propria teoria, le proprie costruzioni, a quelle che il paziente si è forgiato (ognuno di noi ha un’idea propria per spiegare, e persino per giustificare, perché è fatto come è fatto). Consentire a esporsi a quella passione, a quella rabbia, a quei singhiozzi, a quei silenzi, , a tutte le forme della dismisura, nell’ignoranza di ciò che le suscita. Lasciarsi colpire, ferire, demolire nel proprio essere. Rimanere in ciò che è oscuro, sognare, se possibile, in quel buio traversato da brevi schiarite per tentare di avvicinarsi il più possibile a ciò che mi è radicalmente estraneo, a ciò che l’altro sente come estraneo a se stesso, ma a cui non può fuggire.  

Vorrei non aver scritto nemmeno una riga che non mi sia venuta da quanto i miei pazienti mi hanno permesso di indovinare; molto spesso cose semplicissime eppure insospettate per loro stessi e per me. Fare attenzione che queste cose non si mutino in idee fisse. Di qui la noia di dover difendere ciò che ho potuto enunciare in tale o tal altro momento. Ciò che, in un periodo, mi si è imposto. L’ho scritto,non lo rinnego. Non chiedetemi di renderne conto. Si esige forse da un paziente, da un analista che mesi, anni dopo, giustifichino ciò che hanno potuto affermare nel corso di una seduta nella convinzione che fosse proprio così?

DOLORE AL RISVEGLIO

Mi parla (un paziente, N.d.L.) di ciò che lui chiama la sua “depressione mattutina”. È un passaggio difficile, il passaggio da un mondo all’altro, e quei due mondi si contrappongono, non sono ancora uscito dal primo e sono costretto, sì, costretto, a trovare il mio posto nel secondo. Invidio (no, non li invidio veramente) quelli che, appena usciti dal letto, posano saldamente i piedi per terra, come se niente fosse, come se i sogni della notte non lasciassero la minima traccia in loro, come se non avessero il minimo effetto su di loro.

L’uomo che mi parla, quest’uomo in cui mi riconosco, non conserva alcun ricordo dei suoi sogni. Eppure, privati del loro contenuto, permangono in lui: “non riesco ad emergerne, non so cosa ho sognato; forse, se potessi fermare un episodio, anche solo poche immagini, forse allora il passaggio per me sarebbe più facile. Ma così, è uno strappo. Devo separarmi brutalmente dal mondo notturno, da quel mondo dove ho sentito, vissuti più avvenimenti che in qualsiasi altro luogo, dove sono stato straordinariamente attivo e più sveglio di quanto non sarà mai possibile essere in quella che viene chiamata veglia  Deve essere questo, nascere: un’espulsione”.

Mi dico che quest’uomo ha la fortuna di soggiornare, non fosse che per un breve tempo, nel limbo. Ai miei occhi conferma l’idea che chi entra facilmente nel mondo da lui considerato come il solo reale è un uomo impoverito, per sempre separato dalle fonti della vita.  Se non mi stanco della psicoanalisi è perché, a suo modo, essa è un lungo soggiorno nel limbo, in quel regno di mezzo, un regno senza re.

LA TESTA E LA STANZA

“Il sogno è un’allucinazione che non rende pazzi”.

“E’ un sogno, quando resta nella testa. È un incubo, quando entra nella stanza”.

La testa: anch’essa una stanza, ma una stanza interna. Può anche essere in disordine, può persino succedere che non la riconosciamo, se l’abbiamo lasciata per molto tempo, non di meno resta la nostra stanza.

UN PENSIERO CHE SIA SOGNANTE

Freud  ignora e respinge il fascino della vita onirica, dissipa i suoi incanti e il suo mistero, il sogno è un rebus, una scrittura per immagini, va decifrato, tradotto, le immagini che si succedono convertite in lettere che compongono una frase. E ciò che alla fine esso rivela come desiderio non ha niente di poetico. Ma se il sogno fosse un’attività del pensiero, un pensiero che non sa di pensare? Al risveglio ci piacerebbe poter ritrovare le immagini sconvolgenti, belle, inquietanti che ci hanno fatto visita durante la notte, ma che già si cancellano…Abbiamo il presentimento di non aver perso solo delle immagini, ma molto di più, tutto un regime del pensiero, di un pensiero che avanza senza tregua, di sequenza in sequenza. Un pensiero diurno che sia sognante, non sognatore ma sognante, come potrebbe essere? Procederebbe forse, come nei nostri sogni, senza la coscienza della propria destinazione, trascinato solo dalla forza del proprio movimento, prendendo molteplici strade che alla fine convergerebbero verso un punto luminoso? Non so. Posso tutt’al più contrapporlo al pensiero di chi soffre d’insonnia. Che cosa succede a costui? Appunto, non gli succede niente:non il minimo avvenimento, non la minima avventura, nessuna traversata del tempo. Nella sua testa – e soltanto nella sua testa – si succedono e si ripetono solo pensieri cupi che lo assalgono mentre durante il giorno era più o meno riuscito a tenerli a distanza. Il malato d’insonnia è un uomo di preoccupazione, non di desiderio, e nella sua dolorosa incapacità di lasciarsi andare al sonno e di lasciare che venga il sonno, le preoccupazioni non mancano. Ma non obbediscono più alle regole del pensare diurno che forse permetterebbe di relativizzarle, di imporre loro una gerarchia. No, una preoccupazione chiama l’altra, si sommano, si ammassano, girano a vuoto.

Il pensiero sognante a cui aspiro attingerebbe dal sogno la forza di essere irriflessivo, sconveniente, di avanzare a suo rischio e pericolo, come un sonnambulo.

COME PIANTARSI IN ASSO?

“Ovunque sia, è sempre con se stesso”.

Stanchezza di ritrovarsi gli stessi ogni mattina, mentre nel corso della nostra traversata notturna abbiamo rivestito mille forme, conosciuto mille avventure in tutti i tempi, fatto apparire i nostri scomparsi e i nostri morti. Quel tempo di mezzo tra la luce della notte e quella, così ridotta, del giorno, quel tempo in cui non so più chi sono  si cancellerà presto; ecco che davanti allo specchio vengo brutalmente riportato a me stesso.

L’analisi, il sogno, la scrittura: mezzi per piantarsi in asso. Tre movimenti attivi che mi distaccano dal me-stesso. In essi il me si perde, l’io si trova.

DELUSI E DELUDENTI

Mi dice che la serata di ieri a casa di amici l’ha deluso. Gli chiedo che cosa si aspettava. Non lo sa bene, niente di particolare, eppure è deluso.

Può esserci delusione senza aspettativa, o con un’aspettativa che ignora ciò che si aspetta, che si aspetta qualcosa di più o qualcosa di diverso, un’aspettativa dell’inaspettato?

Una magnifica serata, deludente. Forse mancava una donna capace di turbarlo, o discorsi che potevano farlo arrabbiare. “La mia vita: un successo da tutti i punti di vista”, dice, e, sporadicamente, la delusione lancinante di non essere riuscito a deludere.

Per non essere delusi occorrerebbe forse non aspettarsi niente? Essere nati senza illusioni per star certi di non perderle mai? Essere, fin dall’origine, disincantati? È quello che spesso mi dico di R., che non dimentica mai che tutto è mortale, che prende le cose come vengono, che non s’indigna né si lamenta mai. Un nulla può incantare quel disincantato nato: il cielo riflesso nell’acqua di uno stagno, un cane che gli fa le feste e soprattutto, soprattutto, le gambe slanciate o l’attaccatura del seno di una donna incrociata per strada.

Se le nostre madri non fossero deludenti, non riceveremmo nulla di quello che, a sorpresa, ci offre la vita.

L’ADDIO AL ROMANZO

Spesso, quando ricevo un eventuale futuro paziente, vedo tessersi il canovaccio di un romanzo. Una storia di vita si delinea, con un’infanzia, con drammi, lutti, momenti di svolta, avvenimenti salienti e un ambiente sociale. Sono così convinto di capire, di afferrare i fili di un destino, che mi succede persino di anticipare quanto seguirà, come nella lettura di un romanzo. E poi bastano poche sedute e la storia si confonde, l’intelligibile cede il posto all’enigma, e io non sono più capace di raccontare niente. Non so più con che cosa né con chi ho a che fare. Avanziamo, l’uno e l’altro, nel buio.

Più tardi il paesaggio sarà meno sfocato, alcune forme appariranno, per poi lasciare il posto ad altre, che faranno delle precedenti bozzetti provvisori. Parole che si ripetono, che fanno giri e rigiri, per raccontare, per arrivare ai fatti. Ma noi dimentichiamo che noi ricorriamo ai fatti solo per misconoscere il movimento. Questo movimento che ci anima – il movimento del pensiero, della lingua, del sogno, della memoria, della parola, del desiderio – non potrà raccontare se stesso. Tutt’al più potrà essere evocato.  È possibile trasmettere il movimento di un’analisi? A questa condizione: che attraverso la mia voce si senta quella dell’altro.

Il racconto del sogno abolisce il sogno sognato. Il racconto dell’analisi cancella e addirittura distrugge l’analisi.

LA MANCANZA DI NOME

Chi è? Lo conosco, l’ho già incontrato da qualche parte, ma dove? E quella donna, a chi somigliava…?

Impossibile dare un nome a quei volti, impossibile identificarli. Turbamento, smarrimento fulmineo che mi permette di divagare nella memoria. Nello spazio di pochi secondi ecco che mi ritrovo in ogni sorta di luogo, che mi trasporto in età diverse. E poi sì, ci sono: ho capito: quell’uomo è…E quella donna è…

Rassicurazione immediata: identificare, localizzare nel tempo e nello spazio. Che cos’è che si perde, allora, quando il turbamento cessa? Il pensiero sognante? Il pensiero migrante? Pensiero benefico che ci trascina altrove, ci sconcerta, ci fa viaggiare. E poi, non appena possiamo dare un nome, ricaschiamo in piedi. Sappiamo, crediamo di sapere dove siamo. È segnato sulla cartina, sulla mappa, è come dice la guida. Non siamo più smarriti.

Stessa cosa in analisi: smarrimento, poi rassicurazione, quando possiamo nominare, identificare. Va bene, però lo ripeto: che cos’è che si perde allora, con l’assegnazione del nome? In quella mancanza di nome io vedo una possibilità.(il corsivo è mio, n.d.L.).

MEMORIA

Può darsi che i ricordi servano da schermo alla memoria, mentre pretendono di essere quanto in essa si è depositato, quanto essa conserva preziosamente, al riparo dall’erosione del tempo. Eppure ritengo che lo stoccaggio dei ricordi sia quasi l’opposto del lavoro di memoria quale viene suscitato dall’analisi. Persino al rimemorazione  – il ritorno di sensazioni dimenticate che d’improvviso risorgono – è lontana da quella memoria silenziosa di cui siamo fatti. L’ipermnesia è l’ipertrofia della memoria registratrice, grande quantità di energia concentrata allo scopo di non dimenticare niente. (Ma) l’oblio è necessario per dare spessore al tempo, per accedere al tempo sensibile. Una memoria che pretende di essere esente dalla perdita è una memoria morta. Una memoria morta ha registrato tutto, eccetto ciò che è vivo oggi, e che non si può registrare.

Ipermnesia, insonnia: sono sorelle. La memoria è ciò che dorme in noi, è il nostro mare tranquillo.

RICORDI

L’analisi, spesso, fa risorgere ricordi all’improvviso, inattesi. E qui il piacere di ricordare viene più dalla rimemorazione che dal contenuto del ricordo: è il piacere di rimettersi in memoria, della rimpatriata con se stessi. Il passato non è morto, io sono vivo, sono lo stesso che ero in quel giorno, in quel secondo. È la possibilità di rassembrarsi, di dare un’unita a quanto è disperso. Non esistono ricordi rimossi, ricordi inconsci: rimosso è ciò che si nasconde, si traveste nel ricordo, ciò a cui il ricordo è connesso, i collegamenti, le tracce che vengono a depositarsi e a condensarsi in esso. Un ricordo è sovradeterminato come lo è il sintomo, è il sintomo della nostra memoria, la nostra piccola costruzione fittizia,  che ci è infinitamente preziosa.

DIRE E RIDIRE

Piccola casa di campagna, serata d’autunno. Il mio ospite, volendo farmi piacere, mi invita ad ascoltare un’intervista radiofonica che ha registrato. Dapprima una voce che non identifico, e poi l’interlocutore…sono io! È la mia voce, deformata dalla radio, ma è la mia.

Costernazione: ciò che sto dicendo al microfono, l’ho già detto, scritto. Peggio: ciò che da qualche settimana sto annotando in questo libretto, ciò che in buona fede avrei potuto chiamare “pensieri allo stato nascente”, ecco che in larga parte li avevo già formulati cinque anni fa, convinto di improvvisare, mentre già quel giorno ripetevo la mia parte, recitata ancora e ancora.

Prima ipotesi: non faccio che ripetermi, non ho niente di nuovo da dire. Seconda ipotesi: ripetere non equivale a ripetersi. D’accordo, forse dico sempre la stessa cosa, talvolta quasi con le stesse parole, ma succede attraverso strade diverse, che girano intorno a un unico centro, un centro introvabile, se è vero che esiste solo per la sua assenza. Dimostrazione che, come tutti gli altri, mi dibatto in un non so che cosa, sempre uguale e sempre diverso. L’analisi è questo.

VOLER BENE

Voler bene ai propri pazienti: una condizione per me necessaria. Non riesco a concepire come potrei consacrare loro tanto tempo , così tante attenzioni, dedicare una parte così grande della mia vita ad ascoltare le loro lamentele, a fare mio, senza confondermi con esso, il loro “mondo personale”, se non fossi mosso da un bisogno più forte di quello che mira soltanto a rendere la vita vivibile, sopportabile: fare in modo che l’altro si senta, si voglia vivo. (corsivo mio, of course…)

Voler bene ai propri pazienti: condizione perché in loro torni il gusto di vivere, e le cose trovino il proprio sapore, perché sull’ostilità, sul rifiuto predomini almeno ciò che un pittore innamorato dei colori chiamava “cordialità per il reale”.

Volergli bene, diverso da, addirittura opposto a, volere il loro bene. Non esigere niente, ma affidarsi a ciò che di vivo c’è in ciascuno.

CURARSI

Giornata faticosa, sfinente, una seduta dopo l’altra, si somigliano tutte, tutti loro non fanno che ripetersi, ho sentito quella cosa cento volte…Peggio: mi sembra che si ripetano l’un l’altro, non li distinguo più, mi sento assordato, resto inchiodato alla poltrona, mi fa rabbia essere immobilizzato così, mi rimprovero di non riuscire a trovare in me nemmeno l’abbozzo di un pensiero, guardo l’orologio: se l’analisi, è questo, allora non fa per me!

Cerco di liberarmi da quella stanchezza, da quella sensazione di essere rinchiuso, da quel sentimento di impotenza. Mi viene in mente l’immagine di un malato confinato in una stanza d’ospedale. La porta e la finestra sono chiuse. Gli è proibito muoversi.

Apro una minuscola finestra interna. Dapprima è una domanda: che cosa fa sì che io mi chiuda in questo modo, che li allontani, li respinga, che prenda in considerazione, senza crederci davvero, di liberarmi una volta per tutte da questa benedetta psicoanalisi? E d’improvviso mi arriva un’immagine, quella di un uomo venuto da me un anno fa. Aveva perso il padre e, qualche mese dopo, la madre. Diceva di non soffrirne – “erano entrambi molto vecchi, bisognava aspettarselo” – era il suo corpo che non stava bene. Appena uscito da una grave bronchite, gli era venuta la varicella – “una malattia infantile alla mia età, si rende conto!” – dopo di che disturbi della vista, dell’udito: – “un brutto virus, suppongo”.

Il ricordo di quel lontano incontro è qui presente, non so perché. La sera, per distrarmi da questa giornata che non finisce mai, prendo un romanzo di Daniel Pennac, buffo, pieno di invenzioni, ed ecco che in una pagina trovo: “Succede spesso – diceva Thérèse – d’inventarsi una malattia dopo un lutto. È un modo per sentirsi meno soli. Se vuole, è un po’ come sdoppiarsi. Mi curo come se fossi un altro. Siamo di nuovo due: quello che sono e quello che curo”.

La Thérèse di Pennac ha interpretato l’uomo che rifiutava di sentirsi in lutto e che era venuto da me quando le sue continue malattie avevano smesso di fargli compagnia. Voleva finalmente parlare con qualcuno, permettere di esprimersi a ciò che aveva agito dentro di lui in silenzio.

Ma se la perspicace Thérèse avesse interpretato anche me? L’anno che era trascorso non mi aveva risparmiato: la morte della mia vecchia madre, gli attacchi che avevo subito da parte di J. (?), e per concludere quel soggiorno in ospedale che trasforma l’umano che credi di essere in povera cosa…Nel corso di tutti quei mesi, a loro insaputa, i miei pazienti mi avevano portato soccorso. Mai a tal punto avevo percepito che potevo aver bisogno di loro. Nemmeno per un momento avevo pensato che non mi importava nulla delle loro storie, delle loro angosce, delle loro preoccupazioni. Nemmeno per un momento avevo sentito che mi distraevano da quella che era allora la mia sofferenza. La mia attenzione non è mai stata così pronta, sensibile, al di là delle parole come allora. Ricettivo, ecco: ero ricettivo, capace di accogliere, di percepire i movimenti interni che animavano le loro parole.

Oggi, niente del genere. Ero io, soltanto io. Una monade senza porte né finestre. Ostile davanti a tutto ciò che avrebbe potuto turbare la mia autosufficienza.

Quando mi proteggo così, dispostissimo a convincermi che gli altri sono dei pazienti aggrappati alla propria malattia e che io, ben sistemato in poltrona, ho smesso da un bel pezzo di essere un paziente, non sono più un analista. Ho dimenticato che quegli uomini e quelle donne mi curano a modo loro. Mi curano aprendo delle brecce nella mia “normalità”. Forse, insieme all’amore, l’analisi è l’unica esperienza che trascina fuori da sé.

VENIRE DOPO

Certi giorni mi dico: gli psicoanalisti non hanno davvero scoperto granché; senza Freud, semplicemente non esisterebbero. Non è soltanto il loro padre originario, il fondatore di ciò che essi non osano chiamare la loro scienza – lui invece non aveva esitazioni – e l’inventore di ciò che essi non amano chiamare il loro mestiere, sebbene vivano di questo. Freud è colui di cui seguiamo i passi. Noi siamo dei seguaci. Abbiamo forse perso la curiosità dell’esploratore che si inoltra in una terra sconosciuta? Ed ecco che in uno di quei giorni segnati dal disincanto di essere solo un seguace tra altri seguaci, sento alla radio una psicoanalista che con grande tranquillità dice: “Freud era animato dalla scoperta dell’inconscio e non soltanto, come è invece il caso degli analisti d’oggi, degli  inconsci”.

La formula cade proprio là dove c’era uno spazio ad attenderla. Mi seduce, ha il tono della constatazione, più che del disincanto. Certo, l’ambizione non è più la stessa, è più limitata, ma rimane, resta accesa. Addirittura, forse, andando incontro a degli inconsci nella loro singolarità, essa si avvicina di più alle persone e alle nevrosi, in ciò che ciascuna ha di unico.

Eppure mi succede di pensare che non faccio che inoltrarmi in sentieri già battuti. Se non avessi mai sentito parlare di teorie sessuali infantili, o di pulsione di morte, o di angoscia di castrazione, probabilmente non potrei che andare alla deriva, su un flusso di parole e immagini. Sì, ma se ciò che ho imparato mi impedisse di intendere? Se mi aggrappassi a quanto è già nominato-identificato solo per paura di perdermi? Un’interpretazione che deriva da quello che so e non da quello che mi colpisce  non è un’interpretazione. Seducente, quella formula sentita alla radio, ma vera solo in parte. È legittimo differenziare così nettamente l’Inconscio con la I maiuscola dagli inconsci? Possiamo mettere da una parte l’amore che quella donna suscita in me e, dall’altra, la scoperta dell’amore? Il linguaggio non mi appartiene, eppure la mia parola è mia. Quando divento padre, invento la paternità.

In qualsiasi campo noi veniamo sempre dopo, eppure, indefinitamente, iniziamo. Ogni analisi, indipendentemente dal numero di anni della nostra pratica, è la prima volta.

GESTIRE

In un bar, due donne parlano di un’amica comune. “Come l’hai trovata?” – Molto male. – Poveretta! – Che vuoi, non sa gestire il suo lutto”.

Il lutto, la morte dell’uomo che quella donna amava, oggetto di una buona o cattiva gestione! Gestire il proprio budget, gestire il proprio tempo, la propria angoscia e, addirittura il colmo!, gestire le proprie passioni…

Mi vergogno per quelle due donne che non sanno che si può essere pazzi di dolore e che “gestiscono” a piccoli sorsi l’aperitivo della sera.

Succede anche a me di parlare di “funzionamento mentale”, di “apparato” e di “meccanismi” psichici. Ma ammettere che dentro di noi ci sia un macchinario dotato di un’articolazione particolare è cosa ben diversa dall’assimilare un essere vivente a quel macchinario. Che il lavoro del lutto si effettui o meno dentro di me, va bene. Che io “gestisca” il mio lutto, che impari a “negoziare” il mio dolore, che mi vengano prescritte delle istruzioni per l’uso, no.

RADURE

Ricordo di una camminata, che dopo il lungo attraversamento di una foresta ci fece all’improvviso sbucare in una luminosa radura. Radura: luce, fragili raggi di sole attraverso le foglie, apertura, ma apertura in fondo a ciò che è lungamente rimasto opaco. Quante volte in analisi ho avuto la sensazione, dopo settimane, mesi di una laboriosa avanzata, di aver raggiunto una radura!

Qualcuno mi ha fatto notare che quella parola ricorre spesso nei miei libri. È la parola, il suo suono che amo, o ciò che essa designa? Domanda inutile: le due cose mi si confondono. Fa lo stesso. Nessuno mi confischerà la mia radura. È una parola che tocca tutti i miei sensi. Non ne faccio l’oggetto di una meditazione infinita, la gusto con gli occhi, l’assaporo nella bocca, la lascio entrare piano in fondo alle orecchie. È mia, ma non la tengo per me. Nelle mie radure non sono mai solo.